martedì 22 luglio 2008

CAPITOLO 18

Si mise al lavoro subito, dando il meglio di sé e concentrando tutta la sua attenzione su fogli di carta, matite e squadrette, poi pasò il disegno al computer e immerso nello schermo lo ultimò dando sfogo a tutta la sua creatività, divertendosi a cambiare l’ordine dei mobili, a provare i diversi tipi di pavimentazione, il colore dei muri, e infine ci mise dei personaggi che davano un tocco di vita al progetto di quell’appartamento.
Fece un tour virtuale della casa per verificare il tutto. Alle diciassette del pomeriggio aveva già finito. Non era mai stato così veloce.
Così decise di fare una pausa e scese al bar a bere qualcosa, ma tornò subito allo studio con l’intenzione di rinchiudersi di nuovo nel suo lavoro.
-Edward, aspetta- lo chiamò il signor Stevens quando passò nel corridoio.
Lui si fermò.
-Edward, volevo parlarti di un paio di cose, ti prego, sediamoci un attimo-
-Ma certo…- gli rispose entrando e accomodandosi.
-Ho avuto delle commissioni importanti- gli disse prendendo posto sulla sua poltrona dietro la scrivania -volevo farti vedere di che si tratta, è una cosa molto impegnativa e magari volevo chiederti se te la senti oppure…-
Edward si sentì quasi offeso da quelle parole e lo interruppe
-Signor Stevens…Quello che è successo non influirà sul mio lavoro, glielo posso assicurare. Io sono quello di sempre, e farò in modo di rendere anche meglio di prima, almeno per il mese di preavviso che le devo prima di lasciare questo studio-
Stevens impallidì -Stai scherzando?-
Lui scosse la testa -Perché? Non le sembro abbastanza serio?-
L’architetto si alzò e gli voltò le spalle innervosito -Perché stai parlando così? Ho fatto forse qualcosa che non dovevo? Ti ho mai trattato male? A me non sembra, io ho sempre avuto molta stima di te…-
-Signor Stevens!- lo interruppe di nuovo lui -La prego, mi ascolti. Non è colpa sua, anzi, forse questo lavoro è l’unica cosa che mi trattiene ancora qui. Ho intenzione di andarmene, di cambiare città. Restare qui mi farebbe solo male. Mi creda, mi dispiace tantissimo, ma cerchi di capirmi. Le giuro che in questo mese mi impegnerò all’inverosimile per portare a termine i lavori in sospeso e quelli nuovi che vorrà affidarmi-
Lui non rispose, ma era evidente che era stato un duro colpo, e che in qualche modo fosse profondamente incollerito.
-La prego, cerchi di capirmi- gli dise Edward seriamente dispiaciuto
-Si, si, ok…E tu cerca di capire me, non me l’aspettavo questa notizia, avevo grandi progetti in mente, ma avevo bisogno del mio braccio destro per realizzarli. Comunque è giusto che tu faccia le tue scelte, fai quello che senti di fare e non pensare a me. Sappi però che se ci ripensi, ora, tra un mese, tra un anno, o tra dieci anni, quella porta per te è sempre aperta-
Edward tirò un sospiro di sollievo e gli sorrise -Grazie, grazie davvero-
Prima che tornasse al lavoro, squillò il telefono.
-Pronto? Ah, Albert, sei tu- rispose Stevens -Si, è qui…Edward, vuoi parlarci?-
-No…- rispose d’istinto, ma poi ci ripensò. Voleva affrontarlo.
-Edward! Grazie al cielo stai bene, stavamo tutti in ansia per te!- gli disse suo padre
-Cosa vuoi?- lo freddò lui
-Voglio vederti, ti voglio parlare, solo qualche minuto, ti prego-
-Ah si? Anch’io volevo parlarti, sai? Ho veramente “tante cose”da dirti- gli rispose sarcasticamente, ma Albert cercò di ignorare la cosa.
-Allora ti aspetto qui, quando vuoi-
-Verrò stasera. Devo prendere alcune cose. Ci vediamo tra un paio d’ore-
Albert non credeva alle sue orecchie, era sorpreso dalla sua indifferenza, e ciò lo spaventava. Suo figlio, il figlio che ricordava, non avrebbe risposto al telefono e tantomeno avrebbe accettato di vederlo. Lo preoccupava la frase “Devo venire a prendere alcune cose”, ma l’ansia di vederlo era più forte di ogni cosa.
Era circa un mese che era fuori casa. Stava frequentando una donna, dopo più di vent’anni di solitudine in cui non era mai riuscito a dimenticare sua moglie, ma ora, quella donna, sembrava aver riacceso in lui la voglia di riprovare, gli aveva ricordato che infondo, nonostante i suoi passati cinquant’anni, aveva ancora un certo fascino e mezza vita davanti. Stava bene con lei, anche se era molto più giovane e un po’ di questo di vergognava. Aveva trentacinque anni, bella, intelligente, solare. Unico neo, la lontananza. Così si era preso un po’ di tempo lontano da casa, lasciando a malincuore i suoi figli per passare un po’ di tempo con lei, per riflettere e rendersi conto se davvero quel rapporto aveva basi solide…Ma poi, la telefonata di Michael l’aveva sconvolto, aveva mollato tutto e aveva preso il primo aereo con un incredibile senso di colpa sulle spalle per non essere accanto ai suoi figli in quel momento così delicato.
Finito l’orario di lavoro, Edward andò in albergo.
-Mio pad…”Albert”vuole vedermi- disse a Gabriel
-Ah…Bene. E tu?-
-Voglio vederlo anch’io. Voglio vedere se ha il coraggio di guardarmi negli occhi. E voglio fare la valigia-
Gabriel era confuso e preoccupato per lui. Sapeva bene cosa significava affrontare quella situazione e gli salì un nodo in gola ricordandosi del giorno in cui aveva parlato con suo padre.
-Ti va di venire con me?- gli chiese poi distogliendolo dai suoi ricordi
-Ma si…Certo-
Si infilò il giubbino e lo seguì in macchina.
Quando arrivarono a casa Wilson, gli sembrò che non ci fosse nessuno oltre Albert. In realtà c’erano tutti, ma si erano messi d’accordo di restare chiusi nelle rispettive camere per lasciarli parlare tranquilli.
-Buonasera- gli disse Edward con tono cattivo entrando dalla porta
-Ciao- gli disse Albert senza riuscire a nascondere il suo dolore
-Ti presento Gabriel- lo pugnalò ancora con un sorriso finto
Albert era sconvolto -Ciao Gabriel-
-Buonasera signor Wilson- gli rispose lui educatamente
Albert fece loro strada e li condusse nel suo studio, dove avrebbero potuto parlare tranquillamente.
-Cosa vi faccio portare?- chiese con un atteggiamento troppo formale, ma dovuto alla situazione imbarazzante.
-Fai tu. Di solito cosa si offre agli “ospiti”?- gli rispose Edward
Albert sospirò -ok, ok. Perdonatemi, ma sono abbastanza nervoso-
-E perché mai?- insistette lui velenosamente
-Edward, smettila, per favore. Non mi stai rendendo le cose facili- lo pregò
-Ah, scusa perdonami, non me n’ero accorto. In ogni caso, ti rendo subito le cose più facili. Cominciamo a parlare delle mie origini, da dove provengo, di dov’erano i miei genitori e del mio vero nome e cognome-
Gabriel gli diede un calcio per fargli capire che stava cominciando la conversazione nel modo sbagliato.
Albert si alzò e camminò pensieroso per la stanza, poi senza il coraggio di guardarlo in faccia gli disse -Se è questo che volevi sapere quando hai accettato di parlarmi, allora ti deluderò, Edward. Non ti darò mai quelle informazioni. E il motivo è semplice. Sarebbe come mandarti alla deriva senza una meta, solo, senza una casa, senza nessuno. Quindi non lo farò, per il tuo bene-
Lui sorrise amaramente e incredulo -Se non sbaglio era per il mio bene anche nascondermi il fatto che non ero tuo figlio! Di cosa avevi paura? Credevi che non ti avrei amato lo stesso pur sapendo di non esserlo? Forse ti illudevi che non l’avrei mai saputo, ma come vedi il destino a volte gioca brutti scherzi. Forse ora l’hai capito che sarebbe stato meglio dirmi la verità fin da piccolo, come avete fatto con Elisabeth! Lo sapevate tutti, tutti vi siete presi gioco di me! Anche mio fratello, anche mio cugino…Magari anche la mia ragazza!-
-No, no…Anna non ne sapeva nulla. E neanche Elisabeth. Tantomeno Nicole. Arthur l’ha saputo qualche mese fa, per caso. Michael invece l’ha sempre saputo, e anche tutti gli altri-
Edward scosse la testa e sentì le lacrime salirgli agli occhi. Era sollevato dal fatto che almeno le tre ragazze si salvavano, ma si sentiva comunque al centro di un grande complotto contro di lui.
-In ogni caso…Ti chiedo di aiutarmi. Voglio conoscere le mie origini e le cercherò con o senza la tua collaborazione. Quindi se davvero non vuoi mandarmi a brancolare nel buio, e se davvero vuoi il mio bene, dimostramelo-
Albert scosse la testa deciso -No, non posso. Se vuoi fare sciocchezze, io non posso fermarti, ma non ne sarò io la causa-
Edward si alzò -Ok..Allora a questo punto credo non ci sia più niente da dire. Quindi se non ti dispiace vado a prendere le mie cose, non perdiamo altro tempo-
Albert lo afferrò per un braccio mentre gli occhi gli si riempirono di lacrime -Edward, ti prego! Ti prego, rifletti un attimo…Non è da te agire senza pensare, non è da te prendere decisioni così affrettate! Lo so che ho sbagliato, tutti abbiamo sbagliato. Ma ti chiedo perdono e ti chiedo di non valutare i miei errori, ma quello che invece ho fatto di buono per te-
-E cioè?-
Albert era spiazzato da quella persona che non riconosceva più -Io…Io non posso credere che tu abbia scordato tutto-
-Ti sbagli. Io non ho scordato nulla. Tu mi hai dato tanto, anche troppo forse. Hai fatto tutto quello che forse un vero padre non avrebbe fatto, forse hai fatto molto di più. Ma questo faceva parte del tuo inganno. E ora fa parte di una vita che non mi appartiene più-
Gli voltò le spalle e se ne andò, mentre lui, freddato da quelle parole, non riuscì più a ribattere e a provare a fermarlo.
Si lasciò cadere su una poltrona e si coprì gli occhi con le mani.
-Signor Wilson…- gli disse Gabriel poggiandogli una mano sulla spalla -…mi dispiace, mi dispiace veramente. Ma vedrà che è solo un momento difficile-
Albert lo fissò e cercò di sorridergli, ma non riuscì a nascondere gli occhi rossi.
-L’ultima volta che ti ho visto eri piccolissimo, sai?- gli raccontò con rimpianto
-Lei mi ha visto?- gli chiese sorpreso
-Si. Io e mia moglie avremmo dovuto adottare entrambi. Ma quando venimmo a prendere Edward, tu eri quasi in fin di vita. Ti ho ancora davanti agli occhi, così piccolo, completamente intubato. Tu non sai quanto soffrimmo a saperti appeso ad un filo, mentre portavamo via il tuo fratellino. Noi avremmo voluto dare anche a te una casa, una famiglia. Ma la tua malattia non ce l’ha permesso-
-Beh, poi però ce l’ho fatta, e ho avuto anch’io una bella famiglia, quindi so bene ora come si sente Edward, ci sono passato prima di lui. Il tempo però aiuta. Io ora sono in ottimi rapporti con i miei genitori adottivi. Stia tranquillo, si sistemerà ogni cosa-
Albert sorrise ancora -In ogni caso, mi solleva il fatto che ci sia tu con lui. Oltre che essere identico a lui fisicamente, mi auguro che tu lo sia anche nel cuore. E se è così, allora so che è in buone mani-
-Lei sta parlando come se fosse un addio- lo “rimproverò” Gabriel
-Perché so che è così. Perché so che non mi perdonerà. E so che qui non ci vorrà più tornare. Certe cose un padre le sente, anche se non c’è alcun legame di sangue-
-Il legame che c’è tra lei e Edward va ben oltre i legami di sangue. E lo sa, vero che i gemelli si dice siano telepatici. Quindi forse c’è da fidarsi di più di quello che sento io. E io sento che lui tornerà qui, e tornerete ad essere felici. Deve solo passare un po’ di tempo-
-Lo spero, lo spero veramente. Sicuramente per lui questa cosa è stata uno schianto, ma il dolore che sto sentendo io in questo momento, nessuno potrà mai immaginarlo-
-Ma è proprio questo che vi accomuna. E’ questo dolore che vi terrà uniti. La prego, sia sereno signor Wilson-
Albert cercò ancora di sorridere -Si, sei proprio come lui, in tutto. Mi sembra di sentir parlare Edward-
-Non so confermarglielo, non lo conosco per niente…- gli rispose con rimpianto
-Beh, avrete tempo per conoscertvi, ora no?-
Gabriel scosse la testa amaramente -Purtroppo no, signor Wilson. Il tempo è davvero poco-
-In che senso?Non capisco-
-Niente, niente, non importa. Ora però la lascio in pace-
Albert non lo fermò, voleva stare solo.
Gabriel andò un po’ in giro per il salone curiosando tra i soprammobili, poi si sedette e accese la tv come se fosse a casa sua.

CAPITOLO 17

Gabriel tornò in albergo a tramonto inoltrato.
-Ti ho portato un panino- gli disse porgendogli una busta
-E cosa ti fa pensare che io abbia voglia di mangiare?- gli rispose
Suo fratello sospirò e si sedette sul letto -Senti, Edward, sinceramente, io credo che sia meglio che tu torni a casa. A cosa ti serve stare qui isolato dal mondo? Magari potresti parlarne con i tuoi, litigarci, fare domande, quello che vuoi, ma almeno ti sfogheresti, stare qui non serve a niente-
Lui scosse la testa –No. Io non voglio vederli, non voglio sapere più niente di loro-
-Cazzate-
-No, sul serio. Non la voglio una vita fasulla. L’ho avuta per venticinque anni-
-E’ normale che ora la pensi così, è successo anche a me. Tra qualche giorno andrà meglio, vedrai-
-Non credo- lo freddò –probabilmente non mi conosci-
Quella frase sembrava un paradosso –Già, non ti conosco. Che strano-
Edward si alzò e gli voltò le spalle cercando la città buia dai vetri del balcone.
Gabriel cominciava a sentirsi seriamente fuori luogo –Sembra che ogni cosa che dico ti dia fastidio-
-E’ così infatti. Ma non è colpa tua-
-Cosa devo fare? Cosa devo dire? Io non lo so, credimi- gli disse lui in crisi
-Qualunque cosa tu faccia, o dica in questo momento mi darebbe fastidio. Mi danno fastidio tutti, e tutto, e tu più di tutti. Credi che sia facile per me vederti, parlarti…? Mi fai impressione, capisci?-
-Guarda che è lo stesso anche per me!Pensi che per me sia tutto rose e fiori?- gli rispose quasi perdendo la pazienza –Anch’io avevo una famiglia, anch’io avevo una ragazza, anch’io avevo una casa. E ora sono dall’altra parte del mondo solo perché volevo conoscerti! E sono solo quanto te. Anche io non ho più nulla, anche io sto soffrendo, cosa credi!-
-Ok, ok…Scusa. Ma te l’ho detto, non dipende da te. E neanche da me, credo- gli disse mortificato
-Non lo so…In ogni caso non avevo immaginato così il nostro incontro, speravo che anche tu saresti stato felice di conoscermi-
Edward scosse la testa –Bè, forse “felice” non è la parola giusta, ma ripeto, non è per te, ma per le conseguenze che ha portato il nostro incontro, per il modo in cui ti ho conosciuto. Cazzo, io stavo male, e tu mi sei quasi morto davanti. In ogni caso ti sono grato, perché se non fosse stato per te io non avrei mai saputo la verità. E non so se sarebbe stato bene o male. Dammi tempo, ti prego, ci sei passato pure tu, quindi puoi immaginare come mi sento e perdonami se sono sincero-
Gabriel annuì -Ok. Dunque che facciamo? Ti lascio solo?Dimmi cosa vuoi fare, sinceramente come dici. Per me va bene, voglio venirti incontro in tutti i modi possibili. Se vuoi mi prendo un’altra camera-
-No, no, non occorre. Facciamo così, io ora esco, faccio due passi e prendo un po’ d’aria. Magari mi farà stare meglio. E se ci riesco, quando torno, vorrei chiederti alcune cose. Vorrei chiedertele ora, ma mi fa ancora male parlarne-
-Non ti devi preoccupare. Lo so, conosco bene quella sensazione. E’ curiosità, ma anche paura, avresti bisogno di parlare, ma ti fa male. Vorresti sapere, ma vorresti che non fosse vero. Vorresti che qualcuno ti spiegasse tutti i dettagli senza che fosse la tua storia-
Edward restò sorpreso per quelle parole –Esattamente-
Gabriel gli sorrise –Hai visto che forse posso capirti?-
-Si, hai ragione, ma ciò non mi aiuta a farmi stare meglio-
-E’ normale che sia così. La sofferenza deve fare il suo corso. E’ come quando uno ha un’operazione, la ferita fa male, ma poi guarisce e si torna alla vita di sempre. Anche se la cicatrice rimane.-
-La fai facile tu. A parole sembra tutto semplice. Ora però vado, scusami-
-Ok. Ti aspetto sveglio-

Intanto a casa Wilson, dopo una lunga giornata di litigi e accuse infondate, era tornato Albert.
Quando entrò dalla porta tutti tacquero e lui capì tutto dall’espressione sui loro volti.
-Dov’è?- chiese
-Albert, siediti, per favore- gli disse suo fratello Philip
-No, voglio sapere dov’è!-
-E’ quello che vorremmo sapere tutti, papà- gli rispose Arthur
-Che significa?!- chiese terrorizzato
-Significa che si sono incontrati, zio, e non ci spieghiamo come- intervenne Michael
-E’ andato via ieri notte e da allora non abbiamo notizie- gli spiegò suo figlio
Albert lasciò cadere una borsa per terra –Ho capito…E se lo conosco bene non tornerà-
Voltò le spalle e andò a chiudersi in camera sua.
Dopo qualche ora chiamò Arthur e restarono a lungo a parlare dell’accaduto e del da farsi, ma senza avere sue notizie e senza sapere dove cominciare a cercarlo, non potevano far nulla.

Edward vagò per la città senza una meta per quasi tre ore, senza accorgersi del tempo che passava, né dei chilometri sotto i suoi piedi.
Il vuoto nella testa diventava sempre più pesante, sempre più insopportabile e con quel lieve velo di consapevolezza che cominciava a farsi spazio nella confusione, era ancora peggio.
Più passavano le ore, i minuti, più si rendeva conto di ciò che stava perdendo. I ricordi sfrecciavano via veloci, come dei file da trasferire in un’altra cartella, da archiviare da qualche parte nel computer del suo cervello per non riaprirla mai più.
Avrebbe voluto cestinarla definitivamente, ma era come se gli uscisse il messaggio “impossibile spostare la cartella specificata nel cestino, file di sola lettura”.
Non poteva modificarla, non poteva cancellare nulla. Poteva solo archiviare e lo stava facendo.
Nel buio e nel silenzio di quella città ormai spenta dai suoi occhi, si specchiò casualmente nella vetrina di un negozio, e in quel momento fu assalito da un terribile panico. Non si riconosceva, non riusciva a vedere lui in quell’immagine riflessa, era una sensazione orribile, come se il suo corpo fosse diventato un giocattolo a batterie e la sua anima fosse lì ad osservarlo da lontano, senza alcuna intenzione di rientrarci.
Si allontanò quasi spaventato dalla vetrina e riprese la via del ritorno.
Gabriel era ancora sveglio.
-Va un po’ meglio?- gli chiese
Lui scosse la testa mentre sentì di nuovo la collera salirgli alla gola -No. Mi sembra che vada sempre peggio-
-Mettiti a letto allora e dormici su. E’ la cosa migliore da fare ora-
-Certo. Parleremo domani, ok? Mi dispiace-
-Figurati. Non importa. Buonanotte-
Spense la luce lasciando acceso soltanto il lume, poi si rigirò nel letto e si addormentò.
Edward restò a fissarlo per qualche istante ancora incredulo e scioccato da quella somiglianza, poi si spogliò e si mise a letto.
Fu una notte insonne e tormentata da migliaia di voci e ricordi che pian piano riemergevano nella sua mente provocandogli un dolore indescrivibile.
Avrebbe voluto piangere ancora, e magari urlare, sbattere la testa da qualche parte, ma era una persona sostanzialemnte forte e razionale, così finì per soffocare tutto in fondo all’anima, da qualche parte, e quando si fece mattina, la brutta sensazione di essere fuori dal suo corpo, si era trasformata nella convinzione di essere un’altra persona, completamente diversa da quello che era stato fin ora, annullata, azzerata e messa di nuovo al mondo per crearsi una nuova identità, un nuovo carattere, una nuova vita.
Si alzò, fece una doccia e andò a lavoro mentre Gabriel dormiva ancora. Gli lasciò un messaggio su un fazzoletto di carta “Vado al lavoro, questo è il numero per qualsiasi comunicazione. In ogni caso ci vediamo qui stasera, dopo le diciannove”.
Mentre guidava e la città sfrecciava a destra e sinistra del finestrino, ebbe la strana sensazione di sentirsi cattivo, sentiva una tale rabbia e un tale rancore sconosciuti fino a quel momento. Ma si finse sereno quando si trovò davanti al signor Stevens, tanto che lui fu tentato di pensare che non gli importasse nulla di ciò che era successo.

CAPITOLO 16

Quando Gabriel tornò in albergo, lo trovò al bancone del bar a sorseggiare una camomilla. Era pallido e aveva lo sguardo assente, fisso sulla sua tazza.
-Come va?- gli chiese
Edward sorrise amaramente -Una favola-
Gabriel si pentì subito di aver fatto quella domanda
-Ci sediamo un attimo?- gli chiese
Lui annuì con la testa e lo seguì ad un tavolino.
Seguirono interminabili attimi di silenzio.
Gabriel pensava a cosa dire per introdurre un discorso. Avrebbe voluto sapere tante cose di lui, ma la sua curiosità avrebbe dovuto attendere ancora.
Edward invece non pensava a niente. La sua mente continuava ad essere vuota, buio totale.
Poi di tanto in tanto gli sembrava di avere un attimo di lucidità, e pensò che sarebbe dovuto andare al lavoro, che il signor Stevens probabilmente stava chiedendosi che fine avesse fatto.
-Mi fai fare una telefonata?- gli chiese
-Ma certo- gli rispose Gabriel cercando il cellulare nella tasca del giubbino.
-Grazie-
Fece fatica a ricordare e comporre il numero.
-Pronto, signor Stevens sono Edward-
-Edward! Mi hai fatto seriamente preoccupare! E’ da stamattina che mi chiamano per sapere se sei qui-
-Mi dispiace…-
-Non preoccuparti. Arthur mi ha spiegato tutto. Prenditi tutto il tempo che vuoi-
-La ringrazio. Ma ci vedremo sicuramente domani- gli rispose lui
-A me fa piacere se vieni, lo sai, c’è molto lavoro. Ma non sentirti obbligato, capisco che non è uno dei momenti migliori, se vuoi prenditi qualche altro giorno-
-No. Sarebbe peggio, voglio venire-
-Come vuoi. A domani allora, ti aspetto-
-Arrivederci signor Stevens-
Quando ebbe terminato la conversazione si sentì di nuovo sprofondare nel vuoto. La testa gli girava continuamente. Poggiò i gomiti sul tavolo e si resse la fronte come per cercare di fermarla, ma trovava sollievo soltanto nel chiudere gli occhi.
-Lavori in uno studio di architettura, giusto?- gli chiese Gabriel
-Giusto- rispose lui freddamente
Gabriel sospirò -Se vuoi vado a farmi un altro giro-
Edward si sentì mortificato -Senti, perdonami, non ce l’ho con te. Non mi va di parlare, ma non mi dai fastidio-
-Ok. Ma non è il massimo stare qui a guardarci in faccia. Quindi io ne approfitto per fare un giro turistico in città e vado a mangiare qualcosa. Se vuoi cambiarti ci sono i miei vestiti nella valigia e tutto il resto, usa quello che vuoi, non sono geloso-
-Ok, grazie-
Tornò in camera e si trascinò in bagno. Impiegò due ore intere per lavarsi e vestirsi. Le forze sembravano averlo abbandonato, ogni cosa gli pareva un’enorme fatica, anche semplicemente lavarsi la faccia o spremere il tubetto del dentifricio. Era come se improvvisamente la forza di gravità fosse aumentata a dismisura.
Quando ebbe finito, si guardò allo specchio senza riconoscersi.
Uscì dal bagno e si guardò intorno. Dai vetri del balcone, la vita sembrava continuare ignara di tutto e senza rispetto per il suo dolore.
Chiuse le tapparelle e affondò la faccia nel cuscino, poi ricominciò a piangere per ore mentre nella sua mente a poco a poco riaffioravano i ricordi, pugnalandolo senza pietà.
Le immagini passavano lente davanti ai suoi occhi. Rivide sua madre e lui, piccolo, con i suoi fratelli e con Michael giocare tra l’erba, rincorrere un aquilone, costruire, tende e rifugi. Si rivide un giorno di dicembre addobbare l’albero insieme a suo padre, e poi attendere svegli sperando di vedere Santa Claus.
Che bello, al mattino, scoprire le decine di regali e accorgersi di esserselo lasciato sfuggire di nuovo, con il rammarico di dover aspettare un altro anno per cercare di vederlo.
E poi il pranzo insieme al nonno e agli zii, le poesie recitate in piedi sulla sedia per guadagnarsi un soldino da mettere nel salvadanaio.
Quanto aveva amato quella famiglia, la aveva amata anche quando sembrava essersi distrutta dopo la morte di sua madre.
Gli anni in Italia con lo zio, Walter, gli avevano lasciato comunque un bel ricordo. Le giornate in campagna, le vacanze,i compleanni, i regali, le ragazzate insieme a suo fratello, l’amicizia con Michael, e le notti di confessioni con Elisabeth.
E poi Anna. Quanti bei momenti con lei, quanto amore che aveva dato e ricevuto. Un amore del quale ora sembrava non essere rimasto nulla.
Si chiedeva come fosse possibile pensare a lei e non provare niente. Niente di niente.
Non aveva più sentimenti, non aveva più emozioni.
Ricordò il giorno del matrimonio di Arthur e di quanto fosse fiero di fargli da testimone. Era stata una giornata indimenticabile, tutti si erano divertiti, e quel giorno più che mai aveva sentito l’unione della sua famiglia.
E poi Nick, il suo piccolo Nicholas. I suoi sorrisi, i suoi progressi che sembravano far sorgere il sole ogni volta che faceva un gesto, ogni volta che sillabava una nuova parola, quando aveva mosso i primi passi, quando per la prima volta lo aveva abbracciato.
Si addormentò nel dolore di quei ricordi che non sentiva più appartenergli e fece sogni confusi.

CAPITOLO 15

-Non è proprio un albergo a cinque stelle, ma non potevo permetermi altro- disse Gabriel osservando la perplessità e il disappunto di Edward nell’entrare in camera.
-Che vuoi che m’importi. E poi mi ci dovrò abituare a cambiare tenore di vita- gli rispose gettando il giubbino sul letto e sdraiandosi sopra
-La tua famiglia è molto ricca eh? Quella casa è una reggia, e la tua macchina è una figata-
Lui si rialzò e lo fissò contrariato -La “tua” famiglia, la “tua” macchina…Nulla è mio, l’hai dimenticato?!-
Gabriel ammutì mortificato -Ok, scusa- . Poi andò a fare una doccia.
Edward si lasciò cadere sul letto e fissando il soffitto, cercò di mettere a fuoco ciò che era successo quella notte. Ma la sua mente sembrava spenta, sembrava non volerne sapere di realizzare quella notizia. Non riusciva a pensare a niente, per quanto scavasse e riscavasse tra i suoi pensieri, trovava solo il nulla, come se d’improvviso avesse perso la memoria, come se non ricordasse niente della sua vita fino a quel momento.
Si addormentò. Fece centinaia di sogni che si accavallavano tra loro come la pellicola di un film ingarbugliata su sé stessa.
Sognò della sua infanzia, delle splendide giornate a giocare con i genitori e i suoi fratelli, sognò delle pazzie e le avventure da ragazzini con Arthur e Michael, sognò la sua casa, la sua ragazza, e sentì un terribile e improvviso senso di vuoto.
Si svegliò di colpo paralizzato dal freddo eppure completamente sudato.
Si guardò intorno. Era l’alba.
Accanto a lui, Gabriel sembrava dormire tranquillo. Si alzò e si fermò accanto al letto a guardarlo terrorizzato. Quella persona identica a lui lo spaventava.
Gabriel aprì gli occhi svegliato dal sentirsi osservato.
-Edward…- sussurrò
-Sei ancora qui?- gli disse lui con odio e con gli occhi rossi
Suo fratello si strofinò gli occhi e cercò di svegliarsi del tutto
-Si, mi dispiace. Lo so che speravi di svegliarti e di non trovarmi…-
Non gli rispose, aprì il balcone e cercò conforto nell’aria fresca dell’alba.
Si affacciò alla ringhiera e sentì improvvisamente un fiume di lacrime salirgli agli occhi. Scoppiò a piangere senza rendersene conto, senza provare alcuna sensazione, senza emozioni, come se il suo corpo ormai si desse dà solo i giusti istinti e come se la sua anima fosse volata via chissà in quale mondo lontano e nascosto.
Gabriel lo lasciò solo. Sapeva bene cosa provava e come si sentiva.
Si vestì e uscì a fare quattro passi per non dargli fastidio.
Si sentiva in colpa, ma nello stesso tempo convinto di aver fatto la cosa giusta.

Anna si svegliò prima che suonasse la sveglia.
-Edward?- chiamò rivolta alla porta del bagno.
Non ebbe risposta.
-Edward!- insistette
Niente.
Si alzò e andò a vedere. Di lui neanche l’ombra.
Uscì nel corridoio, poi scese le scale. Vide Arthur seduto nel salone, così preso dai suoi pensieri che non si accorse neanche che lei era lì.
-Buongiorno- gli disse -Hai visto Edward per caso?-
Arthur la guardò con gli occhi lucidi e sorrise amaramente
-Vieni qui- le disse picchiettando una mano sul divano accanto a lui.
-Arthur, che succede?- gli chiese lei preoccupata
-Niente, niente tranquilla, dai ora ti spiego tutto-
Anna ascoltò il suo racconto mentre milioni di dubbi la divoravano. Arthur con le sue parole un po’ confuse e cariche di amarezza cercò di spiegarle tutto come meglio poteva.
-Che ne sarà ora di lui? Di noi?- pensò ad alta voce lei alla fine di quella storia inverosimile.
-Si sistemerà tutto, vedrai- cercò di tranquillizzarla lui, poi la abbracciò e lei scoppiò in lacrime.
Poco dopo, Michael tornò a casa.
-Cos’è successo?!Dov’è Gabriel?- chiese togliendosi la sciarpa a gettandola a terra con rabbia
-Michael, io…- cercò di spiegargli Arthur, ma lui era furioso.
Lo afferrò per il collo del pigiama -Lo sapevo che non dovevo fidarmi di te, lo sapevo!-
-Basta smettetela!- intervenne Anna -Per favore…Per favore. Non serve a niente ora addossarsi le colpe. La colpa non è di Arthur. Loro si sarebbero incontrati comunque…-
I due ragazzi la guardarono senza capire.
Anna abbassò lo sguardo e scosse la testa strizzando gli occhi per non far uscire le lacrime.
-Che vuoi dire?- le chiese Arthur
-Voglio dire…- gli rispose lei -…cioè, credo…Che loro due potessero “sentirsi” in qualche modo. Forse mi sbaglio, ma stanotte, prima che Edward si svegliasse con quell’attacco d’asma, stava probabilmente sognando qualcosa e sillabava delle lettere, come se stesse cercando di leggere qualcosa. Lo sapete, lui parla nel sonno. Apparentemente erano lettere senza senso, ma ora che so tutto forse capisco…”Gabriel” , era questo che diceva.
Arthur scosse la testa quasi spaventato -Non è possibile, lui non sapeva niente di lui, figuriamoci se sapeva il suo nome-
-E’ per questo che ti ho detto, che secondo me loro due comunicavano in qualche modo. E’ stato qualcosa tipo un sesto senso a condurlo lì a quel vecchio forno-
-O forse sapeva tutto prima di noi!- la smentì Michael innervosito
-Michael, smettila e stiamo calmi!- intervenne Arthur
Presi dai loro discorsi, nessuno si era accorto della presenza di Elisabeth sulle scale.
I suoi occhi erano colmi di rabbia quando li raggiunse -Cos’è uno scherzo? Arthur stavolta stai giocando sul pesante…-
-Mi dispiace…- le disse suo fratello -…vorrei tanto anch’io che fosse uno dei miei stupidi scherzi, ma stavolta non lo è-
Elisabeth era confusa, non capiva, non voleva capire, non poteva essere.
-Arthur, per favore…- lo supplicò con le lacrime agli occhi
Lui si alzò e la fermò per evitare che scappasse via a nascondersi come ogni volta che stava per piangere -Elisabeth, ti spiego tutto con calma se vuoi, ascoltami, ti prego-
Lei liberò il braccio dalla sua presa e gli diede un pugno sul petto -Non c’è bisogno che mi spieghi! Ero lì, sulle scale, ho sentito tutto!-
-Allora non capisco perché te la prendi con me! Il mio unico maledetto errore è stato quello di addormentarmi!- gridò lui lasciandosi prendere dall’atmosfera di panico che si stava diffondendo in quella grande stanza.
-E credi davvero che io sia così superficiale da accusarti solo per questo! - gli urlò in faccia lei
-E allora cosa diavolo vuoi!? Credi che per me sia facile?!-
-Io…Io…Io non capisco come hai potuto tenerti un simile segreto. Non capisco come abbiate potuto nascondermelo tu e questo…Questo traditore di mio marito! Michael, se non sbaglio io e te non avevamo segreti, se non sbaglio io e te…O mio Dio!- le lacrime la interruppero.
Anna la abbracciò cercando di farsi forza -Dai, Elisabeth, calmiamoci, calmiamoci tutti-
-Dove sarà adesso? Dov’è andato!?- continuava a singhiozzare lei asciugandosi le lacrime.
Il pianto di un bambino li interruppe. Elisabeth salì di corsa le scale e andò da Nicholas cercando di nascondere il suo turbamento. Lo abbracciò forte e lo baciò, perdendosi tra i suoi sottili capelli morbidi e l’odore di bambino.
Il piccolo si calmò immediatamente e si lasciò coccolare dalla mamma.
Mentre lo stringeva tra le braccia, le passarono per la mente centinaia di ricordi che legavano quel bimbo a Edward.
Si ricordò di quando gli aveva detto di essere incinta.
A metà tra gioia e disperazione, e senza sapere cosa fare, suo fratello era stato l’unico a non storcere la faccia naenche per un attimo, il primo a saperlo e l’unico che le aveva dimostrato sincera felicità per quel lieto evento. Lui non aveva pensato che lei non era sposata, non aveva pensato a niente. Era felice e questo le era bastato ad avere il giusto coraggio per portare avanti serenamente quella gravidanza.
Fin dai primi giorni, Edward le era stato vicino, era stato lui a parlare con Walter e a dargli la notizia. Lui la accompagnava dal medico mentre Michael segnava i suoi ultimi mesi di tossicodipendenza in comunità, lui passava intere serate sul divano, con la testa poggiata sulla sua pancia ad aspettare un movimento, un rumore, un piccolo segno di quel miracolo che avveniva dentro di lei. Lui aveva comprato centinaia di giocattoli al suo nipotino, prima ancora di sapere se fosse maschio o femmina. Gli aveva comprato un cavalluccio a dondolo di legno, decine di peluches di Winnie Pooh, dei libri di favole, dei cartoni animati e tante altre cose che lei neanche ricordava. E poi quanto la viziava! Si curava di lei sempre, in ogni situazione, a volte così tanto da essere opprimente. E come dimenticare la notte della sua nascita?
Le si strinse il cuore nel ricordare i suoi occhi colmi di lacrime quando ebbe per la prima volta Nicholas tra le braccia.
Quanto lo amava quel bambino! E quanto quel bimbo si illuminava quando vedeva lo “zio Deddy”! Com’era possibile, ora, scoprire all’improvviso che tra loro non c’era alcun legame di sangue?
Si asciugò alcune veloci lacrime che non era riuscita a trattenere, poi portò Nicholas in cucina e gli preparò il latte cercando di ignorare le voci degli altri di là che ancora discutevano animatamente.
Poco dopo, Michael la raggiunse e le baciò i capelli. Lei si scostò brutalmente.
-Io non potevo dirtelo, l’avevo giurato a mio padre di non dirlo a nessuno- cercò di giustificarsi lui
-Lo sapevate tutti. Tutti tranne io! Perché,Michael!? Dimmi perché! E soprattutto perché nessuno gliel’ha mai detto!? Perché siete stati così incoscienti!? Lui non lo meritava tutto questo, non meritava di essere ingannato in questo modo!- gli rispose lei ancora furiosa e sconvolta
-Perché se non fosse sbucato dal nulla quel guastafeste di suo fratello, lui non l’avrebbe mai saputo, né lui, né nessun altro-
-Appunto!- gridò lei ancora più incollerita -Cosa volete ora eh? Un applauso? Bravi, bella sceneggiata, avete montato tutto secondo il vostro egoismo e secondo il vostro modo di vedere le cose!-
-Elisabeth, non ci devi giudicare. Io sono sicuro che anche tu avresti fatto lo stesso-
Lei scosse la testa -Ma non farmi ridere…Sai che bello svegliarsi un giorno a venticinque anni e scoprire che sei vittima di un inganno di massa! Prova a metterti nei suoi panni, ora!-
Ancora una lacrima che Michael cercò di asciugare, ma lei non si lasciò avvicinare. Gli diede il biberon e gli disse -Puoi darglielo tu, per favore?-
Voleva stare sola, voleva interiorizzare l’accaduto, voleva costringersi a crederci, perché era difficile, troppo difficile.
Così si rifugiò in camera sua.
Avrebbe voluto andare a cercarlo, avrebbe voluto vederlo, abbracciarlo. Trovare qualche parola di conforto come lui le aveva trovate nei suoi momenti difficili. Avrebbe voluto ricambiare per una volta tutto l’affetto che lui le aveva sempre dimostrato, ma ora, Edward sembrava sparito nel nulla.

CAPITOLO 14

Arthur si svegliò di soprassalto. Si era addormentato tra le braccia di Nicole.
-Oh, cazzo!- escalmò sottovoce cercando la sveglia sul comodino.
Attentò a non svegliarla, si rivestì in fretta e scese di corsa le scale per andare da Gabriel, ma si scontrò davanti alla porta con la faccia minacciosa di Edward.
Qualcosa in lui era cambiato, glielo lesse negli occhi e capì subito quello che era accaduto.
-Edward…- sussurrò
-Stai zitto- lo interruppe con un odio che lo fulminò.
Gli passò oltre e andò in silenzio in camera sua a cercare le chiavi della macchina. Si vestì in fretta e riscese senza portare nient’altro con sé.
Arthur era rimasto lì, impalato, sulla porta a chiedersi cosa sarebbe successo ora e che intenzioni avesse. Sentì un nodo stringersi alla gola. Rimpianse l’assenza di suo padre e lo lasciò andare via senza neppure provare a fermarlo.
Si sentì incapace e privo di forze. L’odio che aveva visto nei suoi occhi lo aveva atterrito.
Lo seguì con lo sguardo chiedendosi se l’avrebbe mai rivisto e il pesante macigno dei suoi sensi di colpa lo costrinse a sedersi sugli scalini, mentre il buio inghiottiva l’auto che sfrecciò veloce fuori dal cancello.
Guardò il cielo e sentì un forte dolore al petto.
-Mamma…- sussurrò -…perdonami-
Si ricordò del giorno in cui aveva scoperto tutto.
Era nel pieno dei preparativi per il suo matrimonio, nel pieno della felicità nell’attesa del giorno in cui avrebbe sposato Nicole. Mancava poco più di un mese e Edward ed Elisabeth avrebbero dovuto far loro da testimoni.
-Mi occorre il certificato di battesimo di tuo fratello- gli aveva detto il sacerdote.
-Dovrebbe averlo no?- gli aveva risposto lui visto che quella era la chiesa dove erano stati battezzati tutti e tre.
-No, non ce l’ho-
-Come sarebbe a dire?-
-Mi occorre il certificato rilasciato dalla chiesa in cui è stato battezzato- insistette
-Si, lo so, ma è stato battezzato qui-
Il sacerdote scosse la testa quasi innervosito e cominciò a consultare gli archivi.
Poi dopo lunghi minuti di silenzio, esordì con -No, non è stato battezzato qui-
-Ma come…?- aveva chiesto lui senza capire
-Te lo assicuro, qui non c’è-
-Dev’esserci un errore, padre, la prego, controlli di nuovo- gli aveva chiesto lui seccato
Il parroco sospirò -Ho capito, ho capito. Aspetta, ora ricordo. Parlerò con tuo padre, me lo procurerà lui, tranquillo-
-Che c’entra mio padre?-
-Stai tranquillo. Ci penso io-
Quella questione lo aveva terribilmente incuriosito, tanto che la sera stessa era passato in camera di suo padre per domandarglielo.
Albert era rimasto spiazzato da quella domanda. Voleva ancora evitare e fingere ancora, ma sapeva bene che Arthur non era stupido e non si arrendeva davanti alla prima vaga spiegazione.
Così, per evitare che ne parlasse ancora, anche magari in presenza di Edward, decise di raccontargli tutto:
-Io e tua madre siamo stati fidanzati per molti anni…- gli disse -… In quegli anni ho avuto dei problemi di salute e delle cure pesanti per cui mi avevano diagnosticato una quasi certa sterilità.
Dopo due anni di matrimonio, abbiamo cominciato a sentire il desiderio di completare la famiglia, ma visto che quel figlio non arrivava, ormai rassegnati, abbiamo cominciato una pratica di adozione. Come sai occorrono a volte anni, prima che ti affidino un bambino, e così, nel frattempo, un anno dopo tua madre restò incinta. Mi chiedevo se ciò fosse possibile, ma i medici mi assicurarono che mi era comunque rimasta una minima percentuale di possibilità. Così nascesti tu.
Poco dopo, ci diedero la notizia che avremmo potuto adottare due bambini di sette mesi, gemelli, sopravvissuti ad un incidente stradale in cui i genitori erano rimasti uccisi.
Accettammo senza pensarci due volte, presi dalla compassione e dal desiderio di ridare loro una famiglia felice.
Poco dopo, però ci, informarono che uno dei due bambini aveva avuto una complicazione e gli restavano pochi giorni di vita, così io e tua madre andammo a Sidney a prendere Edward, e a dare l’ultimo saluto al suo fratellino in fin di vita. Fu una cosa straziante doverlo lasciare lì solo, così piccolo,sapendo che di lì a poco sarebbe morto, ma ci consolava la gioia di poter aiutare in qualche modo l’altro bambino.
Durante il viaggio in aereo io e tua madre ci giurammo che l’avremmo amato quanto amavamo te e che per niente al mondo avrebbe mai saputo di non appartenere alla nostra famiglia.
E abbiamo fatto di tutto perché ciò non accadesse. Abbiamo fatto fare dei falsi certificati di nascita, mentre quello originale ce l’ho io, nascosto, al sicuro…-
Il suo racconto continuava, ma ora Arthur non riusciva a ricordare nient’altro. Ricordava soltanto il dolore di quella notizia, di quanto aveva sofferto nel sapere che il suo inseparabile fratello in realtà non lo era, ma quella sera aveva giurato a se stesso che non sarebbe cambiato nulla, che quel lungo racconto di suo padre sarebbe stato solo una breve parentesi da cancellare e nient’altro.
Purtroppo, però nei piani perfetti di suo padre e sua madre, era sfuggito il piccolo particolare che l’altro bambino era sopravvissuto, ed era stato affidato ad un'altra famiglia.

CAPITOLO 13

Gabriel fu tentato di cogliere l’occasione al volo e andare via, ma non ci riuscì.
-Edward, aspetta!- gli disse
Lui si voltò -Sei ancora qui?-
Gabriel lo raggiunse e nello spiazzato riservato ai cavalli, dove non c’erano alberi, era molto più facile cogliere i tratti del suo viso.
Edward fece un passo indietro -Vattene-
-Non sono un’allucinazione- gli disse
Sorrise amaramente -Se non sei un’allucinazione significa che sono morto e sto vedendo il mio fantasma-
-Smettila, Edward! Guardami, guardami bene. Non sono un fantasma-
Lo spinse -Smettila tu! Maledetto cortisone, non prenderò mai più niente in vita mia, giuro, mi tengo la mia bella asma e non mi ritroverò a sbattermi per salvare la vita a un fantasma con le mie sembianze! E’ assurdo….-
Voltò le spalle e riprese a camminare, ma Gabriel lo fermò di nuovo -Che tu voglia crederci o no, io sono un essere umano in carne ed ossa…. E sono tuo fratello!-
Edward ingoiò l’aria con gli occhi sbarrati fissi su di lui. Poi si resse la testa con una mano e strizzò gli occhi -Io…Io non sto bene, devo tornare a letto, vattene per favore-
Gabriel scosse la testa - Fai come vuoi allora. Buonanotte-
Ma lui non mosse un passo e riprese a fissarlo, mentre pian piano si rendeva conto che forse quella persona non poteva essere solo un’allucinazione. Forse l’aveva già capito prima, ma non voleva crederci.
Improvvisamente sentì un macigno comprimergli i polmoni e il suo respiro divenne forzato. Si resse allo steccato di legno per non cadere.
-Mi dici perché ti vedo con i capelli lunghi e con l’accento inglese?- gli disse ansimante e terrorizzato.
Gabriel gli poggiò le mani sulle spalle -Perché sono così…Perché non sono te. Sono tuo fratello, siamo gemelli-
Edward gli voltò le spalle per non guardarlo, come se quasi ne avesse paura, e poggiato allo steccato, con gli occhi fissi a terra nell’erba, si rese conto che da lì a poco, qualcosa nella sua vita sarebbe cambiato.
-Io non volevo che tu lo sapessi in questo modo, te lo giuro- gli disse Gabriel
Edward scosse la testa -Stai zitto, per favore, stai zitto!-
-Ok- obbedì lui
Fece un respiro profondo e cercò di fermare la confusione che girava nella sua testa. Si sentì mancare le forze, mentre ancora aveva il dubbio che fosse tutto un incubo.
Presto però, a quella terribile sensazione si unì la curiosità verso quella persona identica a lui che era rimasto lì fermo in silenzio ad aspettare chissà cosa.
Si girò e lo osservò ancora, poi cercò di far uscire qualche sillaba dalla gola strozzata -Tu saresti mio fratello? E dov’eri fin ora? Insomma, perché non eri qui con noi? Perché ti vedo solo adesso? E soprattutto perché eri chiuso lì dentro?-
-E’ una storia lunga. E non credo sia il caso di parlarne qui, ora. Ti spiegherò tutto in un altro momento-
-No, tu invece parli, e subito, qui, adesso. Ne ho il diritto-
Gabriel sospirò e si sedette a terra, accanto allo steccato.
Edward fece lo stesso.
-Da dove comincio?- gli chiese
-Da dove vuoi- rispose lui sconvolto
-Ok. Due anni fa, ero su internet. La mia ragazza voleva farsi un tatuaggio e cercavo un’idea. Così ho trovato il tuo sito, quello con i tuoi disegni. E c’era anche la tua foto. Neanche immagini quanto mi abbia sconvolto quella foto. Sono stato chiuso in camera per tre giorni. Poi ti ho scritto una e-mail e ti ho commissionato un disegno, te lo ricordi?-
Edward poggiò la testa allo steccato e guardò il cielo incredulo per l’assurdità di quella storia- Si, un unicorno, non dimentico mai le mie creature e i loro viaggi: “Gabriel Parker, Liverpool”-
-Esattamente. Ti ho commissionato quel disegno per avere il tuo indirizzo. Volevo venire a cercarti, ma non avevo un soldo e non avevo intenzione di chiederli ai miei “presunti genitori”. Così ho lasciato l’università e mi sono cercato un lavoro. Nel frattempo, tra liti e fughe da casa, mi hanno raccontato la verità…-
-Io non capisco, in tutta questa storia… Perché mia madre e mio padre avrebbero duvuto darti via…Cos’è successo?- lo interruppe con un nodo in gola e con i pensieri che sembravano girare impazziti senza trovare una via di fuga.
Gabriel scosse amaramente la testa -No, non hai capito, Edward…Nessuno mi ha dato via. Mi dispiace, credimi, ma tu sei orfano quanto me-
Suo fratello sorrise con stizza -Ma che diavolo dici?-
-E’ la verità, mi dispiace, credimi-
Edward si alzò e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro, poi si fermò, si poggiò di nuovo alla staccionata e si mise le mani tra i capelli -Mi stai dicendo che…Che non appartengo a questa casa, non appartengo a questa famiglia?!Smettila, per favore, non scherzare!-
-Purtroppo non sto scherzando. E’ stata dura anche per me-
Edward lo fissò con una rabbia che non era per lui, ma per quella verità che ancora stentava a mettere a fuoco.
Gli occhi gli si arrossarono, il respiro gli si fermò in gola -Per favore, dimmi che è uno scherzo-
-Mi dispiace, credimi, nessuno può capire meglio di me quello che ti sta passando per la testa in questo momento-
Continuava a fissarlo aspettando chissà cosa, aspettando che forse la sveglia suonasse per accorgersi che era solo un incubo.
Intorno era tutta una confusione di rumori cupi e assordanti, non vedeva altro che quella figura identica a lui e la sua vita sgretolarsi all’improvviso sotto i suoi occhi.
Seguì un lungo silenzio. Gabriel sprofondò in un terribile senso di colpa. Vide nei suoi occhi, in un attimo spegnersi la vita, il suo viso assumere una spaventosa indifferenza.
-Edward, mi dispiace, credimi…Perdonami. Michael e Arthur mi avevano avvisato del dolore che ti avrei provocato. Ma non ho voluto ascoltarli. E’ per questo che mi avevano chiuso lì dentro-
Suo fratello gli sorrise in un modo preoccupante -Cos’hanno fatto quei due?-
-Volevano evitare che ci incontrassimo. E invece è andata peggio-
Edward tornò serio -Ho capito. Dove alloggi?-
-In un albergo a pochi minuti da qui- gli rispose senza capire dove volesse arrivare-
-Ok, aspettami qui-
-Cosa vuoi fare?- gli chiese preoccupato
-Niente, tranquillo. Vengo con te-
L’inadeguata razionalità di Edward lo spaventava. Lo osservò avviarsi verso casa e restò lì ad aspettarlo.

CAPITOLO 12

Si guardò intorno senza capire e domandandosi perché si trovava lì davanti a quella porta. Era come se una forza misteriosa l’avesse portato fin lì.
Fece ancora qualche colpo di tosse, stavolta forse per il troppo freddo.
Fu allora che sentì battere un colpo.
Ebbe paura e guardò tra gli alberi stando attento alle spalle.
Ancora un colpo.
- Chi c’è? - chiese

Nel sentire la sua voce, Gabriel, quasi ormai incosciente, raccolse le sue ultime forze e bussò alla porta più forte che poteva.
Fu allora che Edward capì da dove provenissero quei rumori.
Si avvicinò cautamente alla porta e accostò l’orecchio -C’è qualcuno?- chiese
Gabriel non riusciva a parlare, non poteva rispondergli, qualcosa gli stringeva la gola e lo stava soffocando.
Poi finalmente l’aria intrappolata uscì con un colpo di tosse.
-Chi sei? Cosa ci fai qui dentro?- chiese ancora Edward terrorizzato.
Non ebbe risposta -Rispondi! Chi sei?- insistette
Gabriel con grande sforzo si arrampicò alla porta e diede un altro lieve colpo.
Nella testa di Edward passarono mille pensieri. C’era qualcuno chiuso lì dentro, questo era evidente, ma chi, e perché?
Cercò in fretta la chiave, e aprendo la porta una persona cadde ai suoi piedi con la faccia nell’erba.
Fece istintivamente un passo indietro. Era completamente buio e a stento riuscì a riconoscere una sagoma umana.
Lo afferrò per il giubbino e lo girò - Chi sei, cosa ci fai qui?- gli chiese.
Gabriel sentì la disperazione prendere completamente possesso di lui. Non riusciva a parlare, ma se non lo faceva sarebbe morto soffocato. Si sforzò di tossire e così riuscì a sussurrare
- Aiutami-
Soltanto allora, Edward capì che quella persona stava male e quei colpi di tosse, quel respiro strozzato gli sembrarono tremendamente familiari.
-Che hai? Dimmi che devo fare?- gli chiese immobilizzato dal panico
Gabriel non riuscì a rispondere. Gli afferrò disperatamente un braccio per chiedergli un ultimo aiuto, mentre sentì una terribile sensazione di lasciarsi andare, di smettere di combattere tra la vita e la morte. Sentì venir meno anche quella impercettibile forza che gli era rimasta, non ce la faceva, sentiva gli occhi girarsi e tirare dolorosamente.
La presa della sua mano sul braccio di Edward si allentò e la testa gli cadde con un tonfo nell’erba.
-Hey!- gridò Edward schiaffeggiandolo -Hey, che succede, svegliati, dai svegliati maledizione!-
Non aveva idea di chi fosse quella persona, ma chiunque fosse si sentì in dovere di fare qualcosa.
Gli spalancò la bocca, poi posizionò una mano sul petto cercando di seguire alla lettera le nozioni che ricordava di pronto soccorso, e soffiò con tutta la forza che aveva.
-Svegliati accidenti, svegliati!-
Lo fece ancora e ancora una volta.
Gabriel ebbe un sussulto.
-Ok, ok, perfetto, così, avanti- gli disse Edward continuando con la respirazione artificiale.
Fece un colpo di tosse, poi un altro ancora.
-Ecco, ecco, perfetto, dai, ce l’hai fatta…ce l’hai fatta- gli disse esausto e ansimante per lo spavento che si era preso.
Gli sollevò la schiena da terra e lo fece poggiare ad un albero, poi si ricordò di avere con sé l’aspiratore.
Scavò in fretta nel taschino del pigiama e glielo accostò alla bocca -Dai, forza, fai un bel respiro-
Gabriel obbedì mentre ancora non aveva recuperato del tutto i sensi.
Pian piano, ricominciò a respirare bene, gli tornò la vista, anche se non riusciva a vedere altro che qualche lieve riflesso della luna addosso al suo salvatore.
-Ora mi dici chi sei?- gli chiese Edward
-Se fosse così facile….- sussurrò lui ancora con una certa difficoltà a far uscire le parole.
-Chi ti ha chiuso qui dentro?- domandò ancora
-Non ha importanza- rispose vagamente lui cercando di alzarsi reggendosi al tronco
-Dimmi chi sei!- insistette Edward
Gabriel cercò di allontanarsi temendo che potesse riconoscerlo, ma era troppo debole, tanto da non riuscire ad andare oltre l’albero successivo.
-Dove credi di andare!?- gridò Edward
-Devo andare, ma ci rivedremo, promesso- rispose percorrendo un altro metro e aggrappandosi al terzo albero.
Edward lo raggiunse, lo afferrò per il giubbino e lo spinse con la schiena contro l’albero - Credi davvero che ti lasci andare via così, senza sapere chi sei e cosa ci fai a casa mia?!-
-Lasciami andare, per favore…Lo dico per te- lo supplicò
-Scordatelo. Dimmi chi sei!-
Un soffio di vento fece muovere i rami degli alberi e per un attimo una flebile luce passò sul volto di Gabriel.
Edward non era sicuro di ciò che aveva visto. Lo trascinò più in là, dove non c’erano alberi e cercò di osservarlo.
Scosse la testa e sorrise, poi lo lasciò e cercò l’aspiratore nella tasca. Lo lanciò lontano, tra gli alberi, poi si rivolse a Gabriel e gli disse - Ok, ora puoi andare, l’effetto di quella schifezza passerà presto, e sparirai anche tu-
Gli voltò le spalle e si incamminò verso casa ancora incredulo per ciò che gli aveva provocato quel medicinale.
Giurò a se stesso di tornare in camera sua e cercare di dormire senza permettere a nessun’altra allucinazione di prendersi gioco di lui.

CAPITOLO 11

Anna sobbalzò per un improvviso colpo di tosse di Edward.
Lui dormiva e sembrava tranquillo. Gli accarezzò i capelli e lo strinse forte.
Stava sognando, stava facendo un sogno che lo perseguitava fin da bambino.
Camminava di notte, in riva al mare. L’acqua era agitata e ad ogni onda la marea si alzava costringendolo ad allontanarsi sempre di più dalla riva, fino a quando si svegliava di soprassalto senza capire il senso di quella specie di incubo. Ma quella notte non fu così, il mare continuò a salire, più del solito, poi si ritirò improvvisamente lasciando una grande distesa di sabbia bagnata e accanto ai suoi piedi una catenina d’argento.
Edward la raccolse e ripulendola dalla sabbia, si accorse che aveva un piccolo ciondolo, un angelo tagliato esattamente a metà in modo da lasciare solo una di due parti simmetriche.
Dalla parte del taglio, c’era inciso un nome. Si sforzò di leggere, ma come in ogni sogno, di solito non ci si riesce.
Quando si svegliò, si trovò nel pieno inizio di una crisi d’asma.
Anna si era già alzata a prendergli l’aspiratore, ma stranamente, quell’intervento che di solito era di effetto immediato, sembrò quasi peggiorare la situazione.
-Edward, ora chiamo qualcuno- gli disse allarmata
-No, no…Stai tranquilla ora passa- le rispose lui a fatica.
Si alzò dal letto e aprì il balcone per sentire il sollievo dell’aria sul viso, ma ebbe un’improvvisa allucinazione. Gli sembrò che fosse completamente buio e che i vetri del balcone fossero inspiegabilmente di legno.
Uscì e si poggiò alla ringhiera reggendosi la testa per un capogiro.
-Anna!- chiamò
Lei accorse –Cosa c’è?-
-Per favore, controlla la scadenza di quella polvere- le disse faticando a trovare lo spazio per le parole tra un respiro e l’altro.
Anna corse a recuperare l’aspiratore e cercò la data -Non è scaduta Eddy-
-Ok, ok…- cercò di calmarsi lui
-Eddy ma che succede?- chiese preoccupatissima
-Niente, niente…Ho delle allucinazioni, ma credo che sia un effetto di quella schifezza-
Anna cercò il foglietto illustrativo e lesse con attenzione
-Si, infatti…Magari ne hai un po’ abusato in questi giorni. Chiamiamo il medico?-
-No, no, a quest’ora…Mi rimetto a letto, tanto è un effetto momentaneo-
-Ok-
Cercò in quel modo di tranquillizzarla, ma stava davvero male.
Si sforzò di trattenere la tosse e di mantenere la calma, ma appena lei si fu riaddormentata, si alzò e tornò fuori al balcone.
Il pavimento gli girava sotto i piedi e stranamente non sentiva il freddo, anzi sudava.
Cominciò a tossire senza tregua, e sentiva un’eco assordante dei suoi respiri. La testa gli girava, e fu costretto a chiudere gli occhi.
In quel momento le sue allucinazioni astratte si solidificarono in un’immagine ben definita: il vecchio forno.
Riaprì gli occhi sorpreso per quella visione di cui non si spiegava il senso e cominciò ad avere paura, una terribile e inspiegabile paura senza fondamenta.
Rientrò in camera e fu tentato di svegliare Anna, ma poi pensò che doveva essere stanchissima per riaddormentarsi così in fretta.
Così, quando la tosse sembrò dargli un attimo di respiro, uscì nel corridoio e scese le scale di corsa portando con sé l’aspiratore , con l’intenzione di scendere al piano di sotto a chiamare il medico.
Faticò ad arrivare in fondo ai gradini, e sentì i suoi piedi atterrare sull’erba.
Chiuse gli occhi e scosse la testa - O Signore, ma che diavolo sta succedendo….-
Tentò di raggiungere il telefono, ma il respiro gli si intrappolò alla gola e gli mancò l’aria. Credette di morire per un attimo.
Cercò disperatamente una via d’uscita calpestando e schivando le sue allucinazioni e arrivò alla porta.
Il giardino era tranquillo e silenzioso. L’aria fredda sul viso gli diede un incredibile sollievo. Sentì i polmoni finalmente riaprirsi e recuperare pian piano le loro normali funzioni.
-Dio ti ringrazio- sussurrò
Restò per qualche minuto seduto sugli scalini davanti alla porta per riprendere le forze, poi cominciò a risentire il freddo, così si alzò e stava per tornare in casa, ma di nuovo un’allucinazione, di nuovo il vecchio forno.
Senza chiedersi perché, e senza esitare ancora si incamminò verso il retro della villa e attraversò lo steccato. Il buio gli impediva quasi di vedere dove metteva i piedi, ma andò avanti senza fermarsi, finchè arrivò alla porta di legno.

CAPITOLO 10

Per Edward ormai era diventato quasi d’abitudine dormire in camera di Anna. Da quando suo fratello si era sposato, la sua stanza sembrava sempre vuota e terribilmente triste. Gli mancavano le ore passate a parlare, a litigare, e le insopportabili manie della sua insonnia, quando in piena notte accendeva la radio o la tv, o magari apriva il balcone in pieno inverno per prendere un po’ d’aria. Lo odiava quando andava avanti e indietro per la stanza trascinandosi le pantofole con poco garbo, aprire in continuazione la porta del bagno, il rubinetto, e tutto il resto, e lo odiava ancora di più quando gli faceva domande mentre dormiva, come se fosse una cosa normale mettersi a parlare di cose inutili nel pieno della notte.
-Eddy, dobbiamo rivedere la lista degli invitati- gli disse Anna già munita di carta e penna
-Ora?-
-Si…E quando se no?- confermò lei
Edward guardò l’orologio –Annina, ma è l’una di notte, non potremmo rimandare a domani?-
-L’abbiamo detto anche ieri sera…E l’altro ieri, e il giorno prima ancora-
-Bè, vuol dire che rimanderemo ancora un altro giorno, c’è tempo no?-
Lei sospirò sconfitta –Non è che io avessi tutta questa voglia…E tu non mi incoraggi affatto- disse lei spogliandosi.
-E dai, piccola, lo faremo domani, promesso- la baciò sulle labbra e si misero a letto, addormentandosi all’istante, abbracciati.
Arthur si trovò a combattere con la sua solita insonnia, che quella sera era più marcata che mai.
Era l’una, erano passate due ore. Pensò che Gabriel oramai doveva essersi svegliato. Doveva andare da lui, ma ironia della sorte, quella sera sembrava che Nicole non avesse alcuna intenzione di dormire.
-Arthur mi sembri nervoso- gli disse -è tutto a posto?-
-Si, si, sta tranquilla- rispose lui con tono vago
-Io ti vedo teso- insistette lei
-Sto bene, credimi…Ho molto lavoro da sbrigare, sono un po’ stressato, vado a prendere un bicchier d’acqua, ok? Aspettami un attimo-
Si alzò, ma Nicole lo fermò abbracciandolo -Ci vai dopo, dai, io avevo altri progetti per la notte del mio compleanno-
Arthur la guardò negli occhi maliziosi. Indossava un completino rosa chiaro che evidenziava meravigliosamente la sua pelle scura.
Pensò che infondo Gabriel poteva aspettare, non si sarebbe mosso di lì, ma poi si ricordò di aver dato la sua parola a Michael.
Era profondamente combattuto, ma un bacio di Nicole fece sparire ogni suo dubbio e lo convinse che non sarebbe successo niente se tardava di un quarto d’ora.
Intanto, Gabriel aprì gli occhi, ma gli sembrò che un velo bianco glieli coprisse. Non ricordava niente di ciò che era accaduto.
Si sollevò mettendosi seduto sul pavimento di pietra, mentre il velo bianco pian piano stava diventando nero.
Si strofinò gli occhi per cercare di vederci meglio, ma era buio pesto. Gli sembrò di avere dei grossi pezzi di ghiaccio al posto di piedi e mani, il freddo gli attraversava le ossa.
Appena ne fu in grado si alzò in piedi e tastò le pareti con le mani. Non capiva, e non si vedeva niente, il buio assoluto. Poi tocò la porta di legno e in quel momento cominciò a ricordare.
-Arthur!- gridò battendo un pugno forte sul legno -Arthur, apri questa porta!-
Accostò l’orecchio e cercò di sentire. Nessun rumore, nessuna voce.
-Oddio- sussurrò sottovoce mentre sentì il panico salirgli al cervello –Oddio, da quanto tempo sono qui? Io devo, devo…-
Un colpo di tosse lo interruppe.
-Arthur! Michael!- cominciò a gridare prendendo a pugni la porta –Aprite, maledizione!-
Un altro colpo di tosse, più violento gli fece bruciare il petto, poi un altro ancora.
Cercò di respirare lentamente e di mantenere la calma, ma il suo respiro sembrava non rispondere ai comandi, era sempre più profondo e irregolare.
-Apritemi vi prego!- urlò ancora, ma niente.
Il terrore cominciò a paralizzarlo. Non voleva morire lì,da solo, senza sapere neanche dove fosse.
Bussò ancora disperatamente mentre un ennesimo colpo di tosse lo fece cadere in ginocchio.
-Aprite, per favore- disse per l’ultima volta mentre i colpi sulla porta perdevano forza.
L’aria gli si intrappolava nel petto e non riusciva più ad uscire, sembrava volerlo soffocare. Il sudore gli scendeva freddo sul viso. Cercò ancora di farsi uscire un filo di voce, ma quando si accorse che era tutto inutile si lasciò cadere seduto per terra, mentre guardando terrorizzato il buio intorno si sentì afferrare dalla morte, sentì il suo odore, e gli sembrò di vedere chiaramente la sua faccia.
Stava male, non era mai stato così male in vita sua.

CAPITOLO 9

Si diressero verso casa e lo trascinarono fino ad un vecchio forno sul retro della villa. Per raggiungerlo bisognava attraversare quello che ormai era diventato un grande spazio per far passeggiare i cavalli e a pochi passi da lì c’era quell’antichissima costruzione di pietra, quasi completamente coperta da erbacce.
Era buio pesto, si aiutarono con la luce del telefonino e cercarono la chiave della porta di legno nella fessura di una pietra, era sempre stata lì, e ormai non ci entrava nessuno da anni.
-Mike, tu sei sempre convinto di quello che stiamo facendo?- gli chiese Arthur guardandosi intorno
-No, per niente, ma che altro possiamo fare per convincere quest’idiota ad aspettare che torni tuo padre?-
Gabriel aprì leggermente gli occhi e bisbigliò qualcosa di incomprensibile.
-Stà calmo, non preoccuparti, è tutto a posto- gli disse Arthur, poi lui tornò a dormire.
Entrarono e lo sistemarono per terra.
Il freddo era terribile, così si tolsero i giubbini e lo coprirono per bene.
Arthur dovette sacrificare il suo affezionato cuscino con la foto di Nicole che portava sempre in macchina, che probabilmente Gabriel non trovava molto comodo.
Mosse la testa , aprì di nuovo gli occhi e si guardò intorno, anche se con quel buio c’era ben poco da vedere.
-Dove diavolo mi trovo?!- si sforzò di chiedere ancora stordito
-Stai tranquillo- gli disse Michael –Starai qui soltanto poche ore, domani mattina vedremo cosa fare…Magari avrai cambiato idea-
Gabriel tentò di alzarsi e gli afferrò un braccio, ma ricadde subito per terra stremato.
-Voi siete due folli!- sussurrò
-Si, ne avevamo il vago sospetto…- confermò Arthur
-Non potete lasciarmi qui…-continuò tra veglia e sonno -…io devo…devo…-
-Si, va bè, qualunque cosa tu debba fare, la farai un altro giorno, non ci pensare e dormi-
Uscirono in fretta e richiusero con attenzione la porta cigolante.
-Arthur io torno al lavoro- gli disse Michael –Si sveglierà del tutto tra un paio d’ore, tu vieni a controllare se è tutto a posto, e spiegagli la situazione -
-Ok- confermò suo cugino non troppo convinto
-Arthur posso fidarmi?-
-Si, certo, stai tranquillo, lo tengo d’occhio io-
-E soprattutto, attento a non destare sospetti di nessun tipo, non dire una sola parola, neanche con Nicole-
-Ovvio-
-Ok, chiamami per qualsiasi cosa. Prendo la tua macchina-
-Va bene-
Quando Arthur tornò in casa, si accorse che erano già le ventitre.
-Arthur! Ma che fine avevi fatto?- gli chiese Nicole allarmata
Prima di rispondere ci pensò cento volte. Gli occhi di tutti, seduti intorno al fuoco,erano su di lui.
-Non essere indiscreta Nicole- le disse Edward
-Indiscreta? Sono le undici passate!- insistette lei preoccupata
Arthur sentì un macigno cadergli nel petto e girò lo sguardo quando suo fratello gli lanciò un’occhiata complice. Edward era convinto che stesse preparando qualcosa per il compleanno di sua moglie, visto che l’indomani, Nicole avrebbe compiuto ventitre anni.
-Appunto Nicole- intervenne Elisabeth che si illudeva di aver capito tutto –Non fare troppe domande-
-Ma siete tutti impazziti?- chiese lei senza capire, ma poi sospettò il motivo di quelle loro affermazioni, sorrise e gli fece spazio sul divano –Ok, dai, vieni, me lo spiegherai domani-
Arthur si sedette accanto a lei e la abbracciò –Certamente-
Mentre gli altri continuarono a parlare immersi nei discorsi più svariati, la sua mente vagava senza sosta. Si fermò più volte ad osservare suo fratello, o meglio, il fratello di Gabriel.
Improvvisamente, gli passò davanti agli occhi, chiaro, il ricordo della sera prima che sua madre morisse.

Suo padre aveva chiesto ad Amelia di potersi occupare personalmente di mettere a letto i bambini.
Così passarono un’ora in bagno schizzandosi con l’acqua e ridendo a crepapelle, mentre Albert li guardava divertiti senza imporgli alcun limite.
Poi asciugò loro i capelli e li mise a letto, ma quando stava per andar via, Edward gli lanciò il cuscino e poi si nascose sotto le lenzuola. Cominciò così un’accanita lotta con i cuscini che terminò al sentire la voce della mamma nel corridoio
Allora raccolsero in fretta i cuscini e si infilarono sotto le coperte, ancora con il fiatone della lotta.
Albert abbracciò Edward e Arthur, li coprì bene, gli sistemò i capelli, e infine si dedicò alla piccola Elisabeth.
Le rimboccò le coperte e la baciò sulla fronte, poi si divertì a strofinare il naso contro il suo.
-Chi è il tuo fidanzato?- le chiese
-Tu- rispose lei sorridendo e baciandolo sulle labbra, poi lo abbracciò forte, e lui faticò a convincerla di lasciarlo andare.
Quando entrò Susan, cominciarono a litigare per averla vicino mentre raccontava loro una storia, come ogni sera.
-Ok, bambini, basta litigare, altrimenti niente storia!-
Tacquero immediatamente.
-Stasera è il turno di Edward- concluse.
Si sedette sul suo letto e lui andò ad abbracciarla.
Ascoltarono la storia senza battere ciglio e quando Edward ed Elisabeth si addormentarono, Arthur chiese a sua madre di restare ancora un po’ con lui.
Susan si sedette sul suo letto e lui le poggiò la testa sulle ginocchia. Sorrideva guardando gli altri due dormire.
Edward canticchiava nel sonno e lei cercava di capire cosa stesse dicendo…Elisabeth se ne stava rannicchiata tra le coperte lasciando spuntar fuori soltanto il nasino a punta e un ciuffo di capelli.
Intanto Susan accarezzava i capelli di Arthur giocando con i suoi riccioli.
Ad un tratto gli chiese -Arthur, voi tre vi volete bene, vero?-
-Si…- le rispose lui
-Molto?-
-Si mamma…Molto- confermò
-Allora promettimi una cosa…- gli disse -…Dovete volervi sempre bene come adesso, sempre hai capito?-
Il bambino annuì con la testa senza capire il senso di quel discorso.
Lei continuò -Qualunque cosa succeda, dovete restare sempre insieme e volervi bene…E poi, tu, Arthur, sei il più grande, devi badare a loro due e proteggerli,sempre…Me lo prometti?-
Arthur si alzò e la guardò negli occhi per cercare di capire il perché di quelle parole che sembravano quasi un addio.
Accennò un “si” con la testa, poi si infilò sotto le coperte.
-Sei felice ora, vero?....- continuò la madre -…mamma e papà ti vogliono bene…hai una bella casa, due splendidi fratellini…Ma a volte capita di essere tristi, lo sai piccolino?-
-Come quando si rompe un giocattolo…O quando muore un coniglietto…- disse lui
-Esatto…e un giorno anche Edward, o Elisabeth potrebbero essere tristi, lo sai?-
Arthur scosse la testa -Io non voglio che loro siano tristi…-
Susan gli sorrise -E allora tu dovrai consolarli, dovrai stargli vicino e dovrai fare tutto il possibile perché tornino ad essere felici…Devi prenderti cura di loro, sempre e non dovrai mai abbandonarli. Fammi questa promessa…-
Arthur incrociò le dita e le baciò -Te lo prometto mamma-
Sua made gli baciò la fronte -Bravo, tesoro mio, sei un bambino bravissimo-
-No, mamma, sono un uomo ormai…- rispose lui con aria seria
Susan sorrise -Ma certo scusa, l’avevo dimenticato che ormai hai quasi cinque anni… Buonanotte ometto!-

Quando aveva fatto quella promessa non avrebbe potuto immaginare i segrerti che sua madre celava nascosti. Primo fra tutti, il suo tradimento con Walter, dal quale era nata Elisabeth, e poi, quello di Edward, che lui aveva scoperto solo qualche mese prima.

Si sforzò di sorridere, di seguire i discorsi e di rispondere in modo sensato quando gli veniva rivolta la parola, ma in realtà non desiderava altro che isolarsi, restare da solo, nascondersi da qualche parte a cercare nel cielo la stella di sua madre ,chiederle cosa fare,e chiederle perdono perché stavolata non sarebbe stato capace di mantenere quella promessa.

CAPITOLO 8

Facendo attenzione a non destare sospetti, uscirono di casa diretti allo studio fotografico.
Gabriel stava dormendo su una poltrona e al rumore della porta balzò in piedi.
La richiusero in fretta e Arthur si infilò le chiavi in tasca.
-Gabriel, lui è Michael, mio cugino-
Gabriel non lo ascoltò neanche, lo afferrò furioso per il giubbino e lo scaraventò sulla scrivania.
-Fammi uscire di qui, subito!- gli disse
Arthur lo spinse e Michael lo tenne fermo mentre lui continuava a dimenarsi.
-Puoi uscire quando vuoi- gli disse Arthur -A patto che accetti una nostra condizione-
Gabriel si liberò dalla presa e Michael non fece resistenza.
-Sediamoci un attimo- intervenne Michael ancora stravolto e incredulo per la straordinaria somiglianza di quel ragazzo con Edward. Infondo era ovvio, erano gemelli, ma vederlo faceva un certo effetto.
-Ascolta Gabriel, noi siamo disposti a venirti incontro, faremo in modo che tu e Edward possiate incontrarvi. Ma ci occorre del tempo per spiegargli tutto. Suo padre è in viaggio, ma l’abbiamo chiamato e ci ha assicurato che sarà qui prima possibile. Sarebbe da folli apparirgli così all’improvviso, sarebbe uno shock terribile. Tralaltro soffre d’asma nervosa, non vorrai che gli succeda qualcosa di brutto, spero-
Gabriel sorrise amaramente -Asma nervosa? Volete dire che non siete al corrente della sua malattia?-
Michael e Arthur si guardarono in faccia. Edward soffiva di quel disturbo da piccolissimo, e nessun medico aveva mai saputo dare una diagnosi precisa. Così l’avevano attribuito ad un fattore nervoso.
-Che vuoi dire?- gli chiese Arthur
Gabriel scosse la testa -Mi state prendendo in giro?-
-Ti assicuro, no-
Sospirò - Mi dispiace essere io a dovervi informare, ma la mia è una malattia genetica, ed essendo gemelli monozigoti, ce l’ha anche lui. Possibile che nessuno se ne sia mai accorto?-
Arthur si sentì mancare le forze -Ma cosa stai dicendo?!-
-E’ così, mi dispiace, credetemi. Ma per fortuna non è in tutti i casi una malattia degenerante. Può darsi che lui ce l’abbia in una forma lieve e che quindi la cosa non rappresenti un pericolo di vita. Ma può aggravarsi col tempo, deve curarsi-
Tirarono un sospiro di sollievo.
-Nel mio caso, invece…- continuò -…avrebbe dovuto stroncarmi da neonato. Ma qualcuno lassù ha voluto darmi un’altra opportunità, anche se breve e sofferta-
Regnò il silenzio.
Michael si alzò per sgranchirsi le gambe -Allora siamo d’accordo? Aspetteremo che torni mio zio, e che Edward si sollevi un po’ dal colpo-
-Mi stai dicendo che potrebbero volerci settimane?- contestò Gabriel
-Aspetteremo tutto il tempo necessario- confermò lui
Gabriel scosse la testa -Io non posso aspettare. I miei giorni sono contati. Domani potrei anche non esserci più. Mi basta un attacco d’asma per restarci secco. Mi dispiace, non ci sto-
Arthur sospirò -Gabriel, ti capiamo perfettamente, ma non possiamo dargli una simile botta così all’improvviso, cerca di capire-
Lui si alzò in piedi e gli andò di fronte -E tu cerca di capire me! Domani potrebbe essere troppo tardi!-
-Non lo sarà- insistette Arthur -E comunque mio padre sarà qui domani sera al massimo-
-Ma allora non hai capito?! Per me è troppo, anche un solo minuto-
Arthur diede uno schiaffo alla scrivania -Smettila di ostinarti e di tentare di commuoverci sfruttando la tua situazione! Non funziona!-
Gli occhi di Gabriel si riempirono di rabbia e lo afferrò per la gola -Tu non sai quello che dici, maledetto! Ne farei volentieri a meno di servirmi del fatto che la mia vita è appesa ad un filo!-
-Basta ora, smettetela voi due!- intervenne Michael -Gabriel, quella che ti abbiamo proposto è l’unica soluzione, per favore, accettala, e tornatene in albergo o dove diavolo alloggi. Altrimenti non possiamo lasciarti andare-
Gabriel si avvicinò a lui e lo guardò negli occhi -Chi credi di spaventare tu eh? Credi che basterete voi due a fermarmi?-
Michael si avvicinò ulteriormente -Si, magari con un piccolo aiutino…-
Gli premette con forza un fazzoletto sulla bocca e lui cadde all’istante sulla poltrona.
Arthur era allibito -Mike, che hai fatto!?-
-Niente, tranquillo, starà solo un po’ stordito, lo usiamo quando i pazienti diventano pericolosi, ne ho sempre qualcuno in tasca-
Arthur si passò una mano tra i capelli -O Signore, Michael, ma cosa stiamo facendo?-
-Ho costatato che con questo qui non si può ragionare, quindi dovremo tenerlo a bada almeno finchè tuo padre non avrà parlato con Edward- disse sicuro di sé
-E adesso che cazzo facciamo?-
-Adesso aiutami a portarlo in macchina, dobbiamo nasconderlo da qualche parte e nello stesso tempo tenerlo d’occhio-
Arthur obbedì e se lo caricò su una spalla -Ho il presentimento che stiamo facendo un’enorme stronzata-
-E’ l’unica cosa da fare, cugino, avevi ragione-

CAPITOLO 7

Con l’ansia alla gola e il panico che gli faceva tremare le gambe, corse giù per le scale e poi a casa.
-Dov’è Michael?- chiese ad Amelia
-E’ al lavoro- gli rispose lei allarmata da quella strana ansia che vibrava addosso al ragazzo.
-Ok…- le disse lui ancora ansimante -…per favore Amelia, non dire a nessuno che mi hai visto, ok? Torno subito-
-Arthur, ma è pronta la cena!- gridò mentre lui risaliva in macchina
-Si, lo so, mangiate pure, non mi aspettate-
Mise in moto e sfrecciò fino alla comunità. Al cancello le guardie lo fermarono.
-Devo vedere Michael Wilson, per favore, è urgente- disse loro
-Mi dispiace, non può entrare nessuno- gli risposero
-Allora me lo faccia chiamare, per favore, le ripeto, è urgente-
La guardia sbuffò e rientrato nella guardiola, compose il numerò dell’interno.
Michael lo raggiunse dopo pochi minuti che a lui sembrarono secoli -Che diavolo succede, Arthur? Cos’è tutta quest’urgenza?-
-Michael, ti devo parlare, per favore- gli disse ansimante
-Che cazzo è successo?! Non mi far preoccupare, Nicholas sta bene?- gli chiese lui sospettando il peggio
-Si, si, stanno tutti bene, ma è urgente lo stesso, Sali in macchina-
-Ok, aspetta, avverto che mi assento un attimo-
Tornò dentro, poi uscì di nuovo e salì in macchina.
-Andiamo in un bar, mi occorre una camomilla- gli disse Arthur
-Ok- acconsentì suo cugino.
Si accomodarono ad un tavolino e ordinarono.
-Ora vuoi decidere a parlare?- lo incitò Michael
-E’ una cosa sconvolgente…- disse faticando a far uscire le parole
-Cazzo, Arthur, parla!-
-Ok. Ok, ci provo…Ricordi quella persona che era sotto casa nostra l’altra notte?-
-Certo. E allora?- gli chiese impaziente
-E’ venuto oggi nel mio studio e per poco non mi è preso un colpo. E’ il fratello gemello di Edward- disse tutto d’un fiato
Michael restò di sasso -O mio Dio…Ma lui non era….-
Arthur scosse la testa -No. Lo credevano tutti, ma non è andata così-
-Cazzo! E ora dov’è?- chiese dando lieve pugno sul tavolino
-L’ho chiuso nel mio studio-
-Cosa?! Cos’hai fatto?!-
-Non voleva saperne di ragionare, così ho dovuto fermarlo in qualche modo-
-Ma sei impazzito?!!!!!!!-
-Forse, ma non avevo altra scelta, non potevo rischiare che Edward lo incontrasse-
-Tu sei un…..Sei un…- gli disse senza trovare la parola giusta
-Si,si, lo so…Ma ora devi darmi una mano-
-Una mano? Cugino mio, mi sa che l’unica cosa da fare è parlare con Edward prima che incontri quel tipo…Oddio, non oso immaginare-
-No, non se parla- si ostinò Arthur
-Arthur, lo so che non è il momento, lo so che non avrebbe mai dovuto saperlo, ma se non lo facciamo noi, lo farà quel ragazzo. E ciò non deve accadere-
Arthur poggiò i gomiti sul tavolo e si mise le mani tra i capelli -Non è possibile, Michael-
-E’ così, purtroppo. E’arrivato il momento per lui di sapere la verità-
Arthur si coprì le orecchie -No, no, non se ne parla-
-Lo so che è difficile, sarà difficile soprattutto per lui, ma deve saperlo-
-Ma tu ci pensi alle conseguenze?! Maledizione, Michael come fa a non fregartene niente!-
-M’importa e come! Ma se non lo viene a sapere da noi sarà ancora peggio! Ora andiamo da lui, ci prendiamo un paio d’ore per parlare e gli diciamo tutto-
Arthur si alzò con un gesto di stizza -No, ti ho detto di no. Troverò il modo per far sparire quel guastafeste-
-Per una volta, Arthur, una volta sola, non dar retta a quella testa di cazzo! Cosa vorresti fare?-
-Qualsiasi cosa pur di rimandarlo da dove è venuto-
-Quando dici così mi fai paura-
-Allora spero di fare paura anche a lui-
Michael scosse la testa -Dai, smettila, siediti per favore-
Arthur sospirò e si risedette.
-Senti- gli disse suo cugino - Conta fino a tre prima di prendere una decisione. Infondo Edward ha il diritto di sapere la verità sul suo conto-
-Cazzate! Mio fratello ha solo il diritto di essere felice, e lo è, e non permetterò a quello lì di rovinare tutto-
-Ma non capisci che non dipende solo da te?! Se quel tipo si è messo in testa di incontrarlo, troverà il modo di farlo. Dobbiamo parlargli noi, per primi-
Arthur non rispose e bevve un sorso di camomilla.
Passarono attimi di imbarazzante silenzio.
-Non possiamo dirglielo noi. Spiegherò tutto a mio padre, se vuole ci parlerà lui-
-Ma tuo padre adesso si trova dall’altra parte dell’America!-
-Vuol dire che aspetteremo il suo ritorno-
-E credi che quel tizio sia d’accordo?-
-Che vuoi che m’importi di lui! Lo convinceremo in qualche modo.-
-Magari è meglio chiamarlo tuo padre, bisogna avvertirlo-
-Ma no, si precipiterebbe qui con il primo aereo, non voglio rovinargli la vacanza-
Michael sbuffò -Arthur, mi sa che tu non hai capito la gravità della cosa, oppure non vuoi capirla. Ora facciamo così: andiamo a casa, telefoniamo a tuo padre, poi andiamo da quel tizio e lo convinciamo ad aspettare il suo ritorno. Non possiamo fare altro, è la soluzione migliore, credimi-
Lui accettò a malincuore, per niente convinto, ma conosceva bene il suo carattere troppo istintivo, e decise di affidare le sue azioni a qualcuno che non fosse se stesso.
Andarono a casa e chiusi in camera sua, telefonarono ad Albert.
Fu Michael a spiegare tutto a suo zio, che per quanto lui fosse stato delicato e lento nel dargli la notizia, rischiò un infarto per il terrore di perdere quel figlio che non era suo figlio, ma che amava quasi più del suo vero figlio.
-Sarò da voi al più presto- gli disse facendosi coraggio -Ora passami Arthur, per favore-
Michael obbedì.
-Senti, Arthur- gli disse suo padre -So che la situazione è catastrofica, so che è difficile mantenere la calma, ma per l’amor del cielo, stai tranquillo e non fare cazzate…E soprattutto fa che lui non si accorga di niente-
-Stai tranquillo papà, la fase dei pensieri diabolici mi è già passata-
-Ma conoscendoti potrebbe sempre tornare…Ti prego, fammi stare tranquillo-
-Te l’ho detto papà, tranquillo-

CAPITOLO 6

Erano quasi le diciannove. Arthur spense il computer e cercò di mettere un po’ d’ordine sulla scrivania. Ammucchiò dei fogli e delle riviste e sfogliò dei provini scartandone alcuni.
Karen bussò alla porta
-Avanti-disse Arthur
-C’è un ragazzo che vuole parlarti- gli disse la segretaria
-Un ragazzo? Strano, non ho nessun appuntamento…E poi sto andando via-
-Gliel’ho detto…Ma dice che è importante-
-Ho capito…I soliti fotomodelli in cerca di lavoro…Ok, fallo entrare-
Il ragazzo entrò. Arthur rimase stupito.
Era la stessa, misteriosa persona con la quale si era scontrato qualche giorno prima, e nascondeva ancora il viso con la sciarpa e gli occhiali
-Guarda chi si vede- commentò sorpreso cercando di osservarne i tratti dietro ai grandi occhiali da sole.
-Ciao- gli disse il ragazzo facendo notare un certo accento inglese.
-Che vuoi? Chi sei?- lo freddò Arthur continuando a fare il suo lavoro
-E’ una lunga storia. Hai cinque minuti?- gli chiese
Lui raccolse dei cataloghi dalla scrivania e cominciò a sistemarli sullo scaffale voltandogli le spalle.
-Ce li ho solo se mi fai vedere la tua faccia- gli rispose
Il ragazzo obbedì e si tolse sciarpa, cappello e occhiali.
Quando Arthur si voltò, gli sembrò che qualcosa lo avesse colpito allo stomaco con una forza disumana.
I cataloghi gli caddero dalle mani, si sentì venir meno per un attimo e restò lì impietrito senza respirare.
-Ora capisci?- gli disse lui
Arthur si resse alla scrivania, poi gli voltò di nuovo le spalle. Il suo presentimento era giusto, quella persona era terribilmente pericolosa per la sua famiglia.
Respirò profondamente per regolarizzare i battiti.
-Tu….Tu non dovevi essere all’altro mondo?- gli disse senza guardarlo in faccia.
-Quindi sai chi sono?- si assicurò il ragazzo
-Si, lo so- confermò Arthur
-E lui? Lui lo sa?-
Arthur sospirò ancora –No, non lo sa, non ha mai sospettato niente…Quindi, qualsiasi cosa tu sia venuto a fare qui, alza i tacchi e tornatene a casa-
-Cominciamo bene…- commentò lui
Qualcuno bussò alla porta.
-Avanti- disse Arthur
Entrò un suo collega –Arthur, ti ho portato quel cd che mi avevi chiesto-
Lanciò un’occhiata veloce al ragazzo e gli disse –Ciao Edward, stai meglio con i capelli lunghi-
Il ragazzo alzò una mano in segno di saluto, ma non gli rispose.
Quando il fotografo andò via, Arthur era ancora più sconvolto.
-Gli somiglio così tanto?- gli chiese il ragazzo
-Siete identici- gli confermò lui –purtroppo-
Seguì qualche istante di silenzio, Arthur lo osservò ancora incredulo –Tutti ti credevano morto-
-Lo sarò tra breve se ti fa piacere- gli rispose lui
-Che significa?-
-Significa che quella malattia ai polmoni che avrebbe dovuto uccidermi da piccolo, me la porto ancora dietro. Mi resta un anno di vita, al massimo-
Arthur gli voltò le spalle, colpito da quelle parole –Mi dispiace…Come ti chiami?-
-Gabriel- gli rispose
-Bene, Gabriel…Immagino che tu sia venuto fin qui per un motivo preciso-
-Ovvio-
Arthur sospirò, e fu preso da un attimo di panico pensando a ciò che sarebbe accaduto di lì a breve.
-Non puoi farlo, ti prego-
-Voglio conoscere mio fratello- insistette lui
Ancora silenzio.
-Edward sta per sposarsi. Ha un buon lavoro. Ha la sua vita. Non puoi sconvolgere tutto così-
-Mi dispiace, ma ho giurato a me stesso di ritrovare lui e il resto della mia famiglia prima che giunga la mia ora-
-Io non ti permetterò di sconvolgergli l’esistenza- lo minacciò Arthur
-Io contavo sul tuo aiuto, perciò sono qui-
-Bene, non ci contare più-
-Troverò un’altra strada. Grazie lo stesso-
Si alzò dalla sedia e stava per andarsene, ma Arthur lo afferrò per un braccio –Un momento, cos’hai intenzione di fare?!-
-Non lo so. Parlerò con tua sorella, magari lei è più intelligente di te. E se anche lei si ostina, mi sa che dovrò cercare lui, direttamente- gli rispose
-Tu sei completamente pazzo, Gabriel! Forse non hai capito, te lo scordi di farti vedere da Edward!-
-Tu non sei nessuno per impedirmelo!- si ribellò lui
-Allora non mi conosci! Sarei pronto a qualsiasi cosa pur di evitarlo-
Gabriel sorrise sarcasticamente –E vorresti farmi paura? Dovresti solo rinchiudermi da qualche parte per impedirmelo-
Arthur sentì il panico scorrergli sotto pelle. Doveva fare qualcosa, subito, o quel folle sarebbe corso da Edward.
-Già, buona idea- gli disse, poi lo spinse forte facendolo cadere per terra, uscì dallo studio e chiuse la porta a chiave.
Erano già andati via tutti.
-Ma che cazzo fai!?- gridò Gabriel bussando forte alla porta
-Apri!-
-Io ti avevo avvisato. Urla pure quanto vuoi, tanto in questo palazzo ci sono solo uffici e a quest’ora sono chiusi-
-Guarda che chiamo la polizia!-
-Infatti sto appena staccando il telefono…E il tuo cellulare si è spento perché è scarico, ho sentito la musichetta prima, ce l’avevo anch’io sai? Identico- gli disse soddisfatto
-Cazzo! Non vorrai lasciarmi qui tutta la notte!-
-Ti piacerebbe! Vado a trovarti un’altra sistemazione, torno subito-
-Dove vai?! Non puoi lasciarmi qui, devo prendere le mie medicine, cazzo!-
Ma Arthur era già andato via.

CAPITOLO 5

In macchina, rimasti soli lui ed Elisabeth, ricominciarono a discutere, con frasi assurde e senza senso, dettate solo dalla rabbia e dalla gelosia.
Lei pianse, ma si asciugò le lacrime prima di arrivare al cancello di casa per non farsi vedere dagli altri, che in realtà sembravano rivolgere le loro attenzioni ad un fatto insolito.
C’era qualcuno fuori dal cancello, probabilmente un ragazzo visto il modo in cui era vestito, ma non si intravedeva nulla del viso coperto con una sciarpa scura, dei grandi occhiali da sole ed un berretto con la visiera. E il tutto era molto strano visto che erano le cinque del mattino.
Arthur abbassò il finestrino con aria minacciosa –Cercavi qualcuno?- gli chiese
La persona misteriosa non rispose, gli voltò le spalle e cominciò ad allontanarsi.
Arthur sentì il sangue salirgli al cervello e vide in quella persona un pericolo per la sua casa e la sua famiglia. Scese in fretta dal’auto seguito da Edward e Michael.
Il ragazzo cominciò a correre.
Scesero dalla macchina anche le ragazze pregandoli di tornare indietro, ma non servì a nulla, continuarono a rincorrerlo, anche se lui sparì misteriosamente dietro un angolo pochi metri più avanti, nel buio di quella notte, lasciando i tre ragazzi sconcertati a chiedersi dove fosse finito, e soprattutto cosa ci facesse sotto casa loro a quell’ora di notte.
Nei giorni seguenti, non fecero altro che controllare se ci fosse qualcuno in giardino, sentivano la sua presenza ovunque. La casa era grande e non era neanche ben protetta, quell’individuo sarebbe potuto entrare in qualsiasi momento. Si raccomandarono tutti a Nicole affinchè tenesse bene d’occhio il piccolo Nicholas e lei non lo lasciava neanche un attimo, neanche quando dormiva, neanche per andare in bagno.
Ma per fortuna, quelle paure durarono solo pochi giorni, il tempo di dimenticare la figura misteriosa e tutto sembrò tornare alla normalità.
Ma proprio quando ormai quell’episodio sembrava scordato, una sera, Arthur ed Elisabeth, tornando da lavoro lo rividero in giro per la strada che portava al loro cancello.
-Guarda, Arthur, di nuovo quel tipo!- esclamò lei scorgendolo dal finestrino.
Appena si accorse della loro auto, il ragazzo cominciò a correre. Arthur mise velocemente la retromarcia e gli tagliò la strada seriamente intenzionato a non lasciarselo sfuggire di nuovo.
Lui scavalcò la parte anteriore della macchina e ricominciò a correre. Arthur scese in fretta e lo seguì.
-Arthur, ma dove vai? Cosa vuoi fare?- gridò Elisabeth preoccupata cercando di fermarlo, ma lui non la ascoltò neanche.
Lei era immobilizzata dal panico, quel ragazzo poteva essere chiunque e poteva essere armato.
Seriamente in ansia per suo fratello, cominciò a correre anche lei per cercare di fermarlo.
Intanto Arthur era riuscito a raggiungerlo e lo aveva immobilizzato con un braccio intorno al collo.
-Chi sei? Cosa vuoi da noi?- gli chiese minaccioso ancora col fiatone.
Il ragazzo non rispose, così lui strinse la presa del suo braccio
–Che c’è? Sei muto forse? Credimi ti conviene parlare, lo dico per il tuo bene!-
-Lascialo, Arthur!- gli ordinò sua sorella
Ancora nessuna risposta.
-Parla ti ho detto!- gli urlò ancora Arthur, ma niente.
-Lascialo, Arthur, cosa vuoi fare? Magari è straniero, non ti capisce neanche!- lo supplicò lei
-Ok, ora vediamo subito- le rispose.
Lo spinse contro il muro e cercò di spostargli la sciarpa dal viso, ma il ragazzo lo colpì forte con un pugno allo stomaco e poi un altro in faccia, senza neanche dargli il tempo di reagire, poi scappò via.
Elisabeth si era coperta gli occhi, per un attimo aveva temuto il peggio, aveva avuto paura che la cosa potesse finire male, ma era chiaro che l’unico scopo del ragazzo fosse fuggire via.
Si guardarono l’uno con l’altra, mentre quella storia cominciava ad infittirsi di mistero.
-Non diciamo niente a casa, ok, sono già tutti spaventati- gli propose Elisabeth
-Ok- sussurrò lui ancora dolorante -ma se lo vedo di nuovo lo ammazzo-
Passarono ancora giorni. Della persona misteriosa nessuna traccia. Intorno alla sua figura, erano nate le ipotesi più impensabili, dal ladro al rapitore di bambini, fino ad arrivare a qualche amante segreto di una delle cameriere.
Elisabeth era rimasta abbastanza impaurita da questa cosa e dalle suggestioni che ormai tutti si facevano, così le tensioni tra lei e Michael aumentarono a dismisura, perché lei avrebbe voluto che facesse in modo di essere a casa la notte.
Invece, in comunità, c’era sempre bisogno di lui, e così, quando non c’era, e cioè quasi sempre, Elisabeth era costretta a chiedere a suo padre di dormire con lei e Nicholas..

CAPITOLO 4

Il sabato sera era il momento più atteso dai sei ragazzi. Di solito uscivano tutti insieme, per andare in giro per i locali, o semplicemente a mangiare fuori, in qualche ristorante carino. Se prospettavano una serata tranquilla, portavano con loro anche il piccolo Nicholas, mentre in caso di discoteche e cose varie, lasciavano il bimbo ai nonni, i genitori di Michael, nonché zii di Elisabeth, Philip e Caterine, e loro erano ben lieti di poter avere tutto per loro , per qualche ora , l’unico nipotino.
Quel fine settimana, Elisabeth e Michael discussereo parecchio sul fatto di uscire o no insieme agli altri, la tensione tra loro, ultimamente era aumentata a dismisura e non volevano mettere di cattivo umore le altre due coppie, soprattutto Edward e Anna, che si stavano apprestando a compiere un passo così importante, ma alla fine, dopo un’insistente persuasione di Arthur, che era entrato in camera loro proprio nel pieno della discussione, si videro quasi “costretti” ad accettare.
Così, dopo mille raccomandazioni ai nonni, andarono in un disco-pub.
Di solito Elisabeth era un ciclone, un vortice di energia, ballava senza sosta fino a quando non la trascinavano a forza fuori dal locale.
Quella sera, invece, sembrava veramente spenta e senza vita. Se ne stava seduta accanto a suo marito, senza che nessuno dei due dicesse una sola parola.
Arthur si sforzò di stare cinque minuti in pista, giusto per fare contenta Nicole, poi tornò a sedersi.
Edward era l’unico a cui piaceva ballare, così di solito si ritrovava sempre da solo in mezzo a tre donne e quel ruolo gli piaceva terribilmente.
Quando si accorse che al suo appello ne mancava una, la cercò con lo sguardo tra la folla, e appena la vide si precipitò da lei e la tirò per un braccio costringendola ad alzarsi.
-Edward, lasciami per favore, ho un terribile mal di testa- gli disse lei di pessimo umore
Lui la tirò a se e per sopraffare la musica le urlò in un orecchio –So bene che è una scusa, dai, vieni, te la faccio venire io la voglia di ballare-
La trascinò fino al bancone e ordinò un superalcolico.
-Ma cosa fai ? Edward, lo sai che sono astemia- lo rimproverò lei
-Prendila come una medicina, ok? Stasera non voglio vederti triste- insistette lui
Elisabeth gli sorrise –Io i tuoi consigli li ho sempre seguiti, lo sai…Ma questo non posso proprio, altrimenti domani non sarò abbastanza lucida per badare a Nicholas!-
-Domani sarà passato tutto- insistette ancora portandole il bicchiere alla bocca
Lei bevve un sorso, ma non fece altro che lasciare l’impronta del rossetto sul vetro, e sentì subito salirle la nausea.
-E’ solo all’inizio…- la rassicurò suo fratello -…poi comincia a piacerti, vedrai-
Lei si sforzò di berne ancora, poi sorrise di nuovo –Ti sembrano cose giuste da insegnare alla tua sorellina queste?-
-No, ma farei di tutto per vederti sorridere- le rispose lui con tono deciso, poi finì la bibita e la tirò delicatamente per un braccio fin sopra la pista.
La musica era assordante, Elisabeth sentiva piano piano la testa diventare leggera, come svuotarsi da ogni pensiero. In mente aveva solo la musica e tutta quella gente che si muoveva impazzita intorno a lei. Qualcuno cantava a squarciagola, qualcuno si baciava appassionatamente, forse anche troppo, nascosto tra la folla, qualcuno ne approfittava per conoscenze e approcci vari, qualcun altro era lì solo per divertirsi, come loro. Anna era la regina della pista, lei si che sapeva come muoversi, ma sempre con classe, con eleganza, senza mai essere volgare. Indossava dei pantaloni neri di raso infilati negli stivali, neri con un altissimo tacco a spillo e un top nero e argento, che metteva in risalto le sue forme non proprio esili, e proprio per questo piacevoli. I capelli li portava sempre liscissimi e molto scalati, nero corvino, un po’ più lunghi delle spalle. I suoi grandi occhi neri, con un taglio leggermente a mandorla, erano un misto tra dolcezza e sensualità, il naso all’insù e le labbra carnose, le adornavano un viso perfetto, dalla pelle bianca come la luna. Invece Nicole, la musica ce l’aveva nel sangue, però sapeva muoversi senza dubbio meglio su brani che evocavano atmosfere brasiliane e latine in genere. Di solito si vestiva di bianco, per creare un bel contrasto con la sua pelle scura. Anche quella sera, aveva un pantalone a pinocchietto bianco, dei decolletè dello stesso colore e una candida maglia con una sola manica che diventava iridescente sotto le luci dei faretti. I lunghissimi capelli ricci, bagnati di gelatina, le danzavano lungo la schiena, e il trucco brillantinato sugli occhi e le labbra, la facevano splendere come una stella.
Elisabeth si sentiva quasi a disagio accostata a tanta bellezza. Lei non aveva curato particolarmente il suo look, da quando era nato Nicholas non lo faceva più. Oramai si vestiva giusto per non andare in giro nuda, si truccava l’essenziale per nascondere il pallore e le occhiaie delle notti in bianco, o gli occhi rossi di lacrime. Però lei riusciva ad essere bellissima anche così, con un semplice Jeans e una camicia bianca, un tantino scollata. Gli stivali bianchi, con un misero tacco di solo quattro centimetri, per lei erano diventati davvero scomodissimi, preferiva quelli che toccavano terra e si arricciavano morbidi sui polpacci e si maledisse per non averli indossati. Senza neanche accorgersene, aveva cominciato a scatenarsi diventando una cosa sola con la musica che ormai si era completamente impossessata del suo cervello. Non vedeva altro che suo fratello, lì, che ballava di foronte a lei, bellissimo, con i suoi splendidi, grandi occhi verdi, i capelli castani tirati indietro con la gelatina, un fisico che avrebbe fatto morire qualsiasi donna, evidenziato da una maglietta verde militare, stretta, con delle scritte color oro e un paio di jeans scuri. A destra Nicole, a sinistra Anna, scandivano le note con i loro movimenti, ridevano, si divertivano. Edward si alternava a ballare a turno con le sue tre donne, senza fare alcuna preferenza per la sua promessa sposa. Alcune ragazze del locale non avevano staccato gli occhi da lui per tutta la serata, ma la cosa non lo scalfiva minimamente, né lui, né Anna, che era tranquillissima e sicurissima dei sentimenti del suo ragazzo.
Ogni tanto compariva anche Arthur, per poi risparire subito a far compagnia a Michael, che si divertiva di più a guardare gli altri divertirsi.
Arthur era vestito sempre in modo “comodo”, jeans larghi, camice lunghe rigorosamente indossate al di fuori dei pantaloni o maglioni con maniche lunghissime di almeno due taglie in più alla sua, o larghe felpe obbligatoriamente col cappuccio. Però lui aveva il suo fascino come dire, selvaggio, e un viso dai bei lineamenti marcati. I capelli, quasi del tutto biondi, mossi, li portava sempre abbastanza lunghi e pieni di gelatina, quando erano “troppo” lunghi, li legava con un codino, e in quel modo, lasciava protagonisti gli occhi, di un bel taglio, e di un bel colore castano chiarissimo, molto particolare, occhi che davano un senso di profondità, quasi a voler inghiottire chi li guardava.
Michael, invece, si vestiva un po’ a seconda dell’umore, di solito tute sportive per andare al lavoro, jeans e t-shirt per il resto, ma quando si sentiva “ispirato” era capace di indossare cose elegantissime anche solo per una semplice serata. Non era bravissimo ad abbinare i colori e non gliene fregava più di tanto, ma senza neanche rendersene conto finiva per crearsi un look giovane, colorato, forse un po’ assurdo, ma alla fine sembrava fatto apposta. Era un bel ragazzo, anche se gli anni trascorsi in tossicodipendenza gli avevano lasciato in ricordo un fisico non più perfetto. Era molto dimagrito, ma stava cominciando, pian piano a riprendere peso. Gli occhi castani e le labbra ben disegnate erano il punto di forza di un viso un po’ scolorito, ma comunque bellissimo.
Quello che proprio non gli si addiceva, era la sua espressione triste, quella sera. Non riusciva a capire come potesse Elisabeth divertirsi in quel modo, incurante dei problemi che affliggevano il loro matrimonio. E un pochino ce l’aveva anche con Edward, ma lo giustificava convincendosi che agiva in quel modo solo perché le voleva bene, e voleva vederla felice.
Attese con ansia il momento di andar via da quel posto squallido, che proprio non gli piaceva, ma adorava la compagnia dei suoi cugini, aveva accettato solo per questo.