martedì 22 luglio 2008

CAPITOLO 16

Quando Gabriel tornò in albergo, lo trovò al bancone del bar a sorseggiare una camomilla. Era pallido e aveva lo sguardo assente, fisso sulla sua tazza.
-Come va?- gli chiese
Edward sorrise amaramente -Una favola-
Gabriel si pentì subito di aver fatto quella domanda
-Ci sediamo un attimo?- gli chiese
Lui annuì con la testa e lo seguì ad un tavolino.
Seguirono interminabili attimi di silenzio.
Gabriel pensava a cosa dire per introdurre un discorso. Avrebbe voluto sapere tante cose di lui, ma la sua curiosità avrebbe dovuto attendere ancora.
Edward invece non pensava a niente. La sua mente continuava ad essere vuota, buio totale.
Poi di tanto in tanto gli sembrava di avere un attimo di lucidità, e pensò che sarebbe dovuto andare al lavoro, che il signor Stevens probabilmente stava chiedendosi che fine avesse fatto.
-Mi fai fare una telefonata?- gli chiese
-Ma certo- gli rispose Gabriel cercando il cellulare nella tasca del giubbino.
-Grazie-
Fece fatica a ricordare e comporre il numero.
-Pronto, signor Stevens sono Edward-
-Edward! Mi hai fatto seriamente preoccupare! E’ da stamattina che mi chiamano per sapere se sei qui-
-Mi dispiace…-
-Non preoccuparti. Arthur mi ha spiegato tutto. Prenditi tutto il tempo che vuoi-
-La ringrazio. Ma ci vedremo sicuramente domani- gli rispose lui
-A me fa piacere se vieni, lo sai, c’è molto lavoro. Ma non sentirti obbligato, capisco che non è uno dei momenti migliori, se vuoi prenditi qualche altro giorno-
-No. Sarebbe peggio, voglio venire-
-Come vuoi. A domani allora, ti aspetto-
-Arrivederci signor Stevens-
Quando ebbe terminato la conversazione si sentì di nuovo sprofondare nel vuoto. La testa gli girava continuamente. Poggiò i gomiti sul tavolo e si resse la fronte come per cercare di fermarla, ma trovava sollievo soltanto nel chiudere gli occhi.
-Lavori in uno studio di architettura, giusto?- gli chiese Gabriel
-Giusto- rispose lui freddamente
Gabriel sospirò -Se vuoi vado a farmi un altro giro-
Edward si sentì mortificato -Senti, perdonami, non ce l’ho con te. Non mi va di parlare, ma non mi dai fastidio-
-Ok. Ma non è il massimo stare qui a guardarci in faccia. Quindi io ne approfitto per fare un giro turistico in città e vado a mangiare qualcosa. Se vuoi cambiarti ci sono i miei vestiti nella valigia e tutto il resto, usa quello che vuoi, non sono geloso-
-Ok, grazie-
Tornò in camera e si trascinò in bagno. Impiegò due ore intere per lavarsi e vestirsi. Le forze sembravano averlo abbandonato, ogni cosa gli pareva un’enorme fatica, anche semplicemente lavarsi la faccia o spremere il tubetto del dentifricio. Era come se improvvisamente la forza di gravità fosse aumentata a dismisura.
Quando ebbe finito, si guardò allo specchio senza riconoscersi.
Uscì dal bagno e si guardò intorno. Dai vetri del balcone, la vita sembrava continuare ignara di tutto e senza rispetto per il suo dolore.
Chiuse le tapparelle e affondò la faccia nel cuscino, poi ricominciò a piangere per ore mentre nella sua mente a poco a poco riaffioravano i ricordi, pugnalandolo senza pietà.
Le immagini passavano lente davanti ai suoi occhi. Rivide sua madre e lui, piccolo, con i suoi fratelli e con Michael giocare tra l’erba, rincorrere un aquilone, costruire, tende e rifugi. Si rivide un giorno di dicembre addobbare l’albero insieme a suo padre, e poi attendere svegli sperando di vedere Santa Claus.
Che bello, al mattino, scoprire le decine di regali e accorgersi di esserselo lasciato sfuggire di nuovo, con il rammarico di dover aspettare un altro anno per cercare di vederlo.
E poi il pranzo insieme al nonno e agli zii, le poesie recitate in piedi sulla sedia per guadagnarsi un soldino da mettere nel salvadanaio.
Quanto aveva amato quella famiglia, la aveva amata anche quando sembrava essersi distrutta dopo la morte di sua madre.
Gli anni in Italia con lo zio, Walter, gli avevano lasciato comunque un bel ricordo. Le giornate in campagna, le vacanze,i compleanni, i regali, le ragazzate insieme a suo fratello, l’amicizia con Michael, e le notti di confessioni con Elisabeth.
E poi Anna. Quanti bei momenti con lei, quanto amore che aveva dato e ricevuto. Un amore del quale ora sembrava non essere rimasto nulla.
Si chiedeva come fosse possibile pensare a lei e non provare niente. Niente di niente.
Non aveva più sentimenti, non aveva più emozioni.
Ricordò il giorno del matrimonio di Arthur e di quanto fosse fiero di fargli da testimone. Era stata una giornata indimenticabile, tutti si erano divertiti, e quel giorno più che mai aveva sentito l’unione della sua famiglia.
E poi Nick, il suo piccolo Nicholas. I suoi sorrisi, i suoi progressi che sembravano far sorgere il sole ogni volta che faceva un gesto, ogni volta che sillabava una nuova parola, quando aveva mosso i primi passi, quando per la prima volta lo aveva abbracciato.
Si addormentò nel dolore di quei ricordi che non sentiva più appartenergli e fece sogni confusi.

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