martedì 22 luglio 2008

CAPITOLO 17

Gabriel tornò in albergo a tramonto inoltrato.
-Ti ho portato un panino- gli disse porgendogli una busta
-E cosa ti fa pensare che io abbia voglia di mangiare?- gli rispose
Suo fratello sospirò e si sedette sul letto -Senti, Edward, sinceramente, io credo che sia meglio che tu torni a casa. A cosa ti serve stare qui isolato dal mondo? Magari potresti parlarne con i tuoi, litigarci, fare domande, quello che vuoi, ma almeno ti sfogheresti, stare qui non serve a niente-
Lui scosse la testa –No. Io non voglio vederli, non voglio sapere più niente di loro-
-Cazzate-
-No, sul serio. Non la voglio una vita fasulla. L’ho avuta per venticinque anni-
-E’ normale che ora la pensi così, è successo anche a me. Tra qualche giorno andrà meglio, vedrai-
-Non credo- lo freddò –probabilmente non mi conosci-
Quella frase sembrava un paradosso –Già, non ti conosco. Che strano-
Edward si alzò e gli voltò le spalle cercando la città buia dai vetri del balcone.
Gabriel cominciava a sentirsi seriamente fuori luogo –Sembra che ogni cosa che dico ti dia fastidio-
-E’ così infatti. Ma non è colpa tua-
-Cosa devo fare? Cosa devo dire? Io non lo so, credimi- gli disse lui in crisi
-Qualunque cosa tu faccia, o dica in questo momento mi darebbe fastidio. Mi danno fastidio tutti, e tutto, e tu più di tutti. Credi che sia facile per me vederti, parlarti…? Mi fai impressione, capisci?-
-Guarda che è lo stesso anche per me!Pensi che per me sia tutto rose e fiori?- gli rispose quasi perdendo la pazienza –Anch’io avevo una famiglia, anch’io avevo una ragazza, anch’io avevo una casa. E ora sono dall’altra parte del mondo solo perché volevo conoscerti! E sono solo quanto te. Anche io non ho più nulla, anche io sto soffrendo, cosa credi!-
-Ok, ok…Scusa. Ma te l’ho detto, non dipende da te. E neanche da me, credo- gli disse mortificato
-Non lo so…In ogni caso non avevo immaginato così il nostro incontro, speravo che anche tu saresti stato felice di conoscermi-
Edward scosse la testa –Bè, forse “felice” non è la parola giusta, ma ripeto, non è per te, ma per le conseguenze che ha portato il nostro incontro, per il modo in cui ti ho conosciuto. Cazzo, io stavo male, e tu mi sei quasi morto davanti. In ogni caso ti sono grato, perché se non fosse stato per te io non avrei mai saputo la verità. E non so se sarebbe stato bene o male. Dammi tempo, ti prego, ci sei passato pure tu, quindi puoi immaginare come mi sento e perdonami se sono sincero-
Gabriel annuì -Ok. Dunque che facciamo? Ti lascio solo?Dimmi cosa vuoi fare, sinceramente come dici. Per me va bene, voglio venirti incontro in tutti i modi possibili. Se vuoi mi prendo un’altra camera-
-No, no, non occorre. Facciamo così, io ora esco, faccio due passi e prendo un po’ d’aria. Magari mi farà stare meglio. E se ci riesco, quando torno, vorrei chiederti alcune cose. Vorrei chiedertele ora, ma mi fa ancora male parlarne-
-Non ti devi preoccupare. Lo so, conosco bene quella sensazione. E’ curiosità, ma anche paura, avresti bisogno di parlare, ma ti fa male. Vorresti sapere, ma vorresti che non fosse vero. Vorresti che qualcuno ti spiegasse tutti i dettagli senza che fosse la tua storia-
Edward restò sorpreso per quelle parole –Esattamente-
Gabriel gli sorrise –Hai visto che forse posso capirti?-
-Si, hai ragione, ma ciò non mi aiuta a farmi stare meglio-
-E’ normale che sia così. La sofferenza deve fare il suo corso. E’ come quando uno ha un’operazione, la ferita fa male, ma poi guarisce e si torna alla vita di sempre. Anche se la cicatrice rimane.-
-La fai facile tu. A parole sembra tutto semplice. Ora però vado, scusami-
-Ok. Ti aspetto sveglio-

Intanto a casa Wilson, dopo una lunga giornata di litigi e accuse infondate, era tornato Albert.
Quando entrò dalla porta tutti tacquero e lui capì tutto dall’espressione sui loro volti.
-Dov’è?- chiese
-Albert, siediti, per favore- gli disse suo fratello Philip
-No, voglio sapere dov’è!-
-E’ quello che vorremmo sapere tutti, papà- gli rispose Arthur
-Che significa?!- chiese terrorizzato
-Significa che si sono incontrati, zio, e non ci spieghiamo come- intervenne Michael
-E’ andato via ieri notte e da allora non abbiamo notizie- gli spiegò suo figlio
Albert lasciò cadere una borsa per terra –Ho capito…E se lo conosco bene non tornerà-
Voltò le spalle e andò a chiudersi in camera sua.
Dopo qualche ora chiamò Arthur e restarono a lungo a parlare dell’accaduto e del da farsi, ma senza avere sue notizie e senza sapere dove cominciare a cercarlo, non potevano far nulla.

Edward vagò per la città senza una meta per quasi tre ore, senza accorgersi del tempo che passava, né dei chilometri sotto i suoi piedi.
Il vuoto nella testa diventava sempre più pesante, sempre più insopportabile e con quel lieve velo di consapevolezza che cominciava a farsi spazio nella confusione, era ancora peggio.
Più passavano le ore, i minuti, più si rendeva conto di ciò che stava perdendo. I ricordi sfrecciavano via veloci, come dei file da trasferire in un’altra cartella, da archiviare da qualche parte nel computer del suo cervello per non riaprirla mai più.
Avrebbe voluto cestinarla definitivamente, ma era come se gli uscisse il messaggio “impossibile spostare la cartella specificata nel cestino, file di sola lettura”.
Non poteva modificarla, non poteva cancellare nulla. Poteva solo archiviare e lo stava facendo.
Nel buio e nel silenzio di quella città ormai spenta dai suoi occhi, si specchiò casualmente nella vetrina di un negozio, e in quel momento fu assalito da un terribile panico. Non si riconosceva, non riusciva a vedere lui in quell’immagine riflessa, era una sensazione orribile, come se il suo corpo fosse diventato un giocattolo a batterie e la sua anima fosse lì ad osservarlo da lontano, senza alcuna intenzione di rientrarci.
Si allontanò quasi spaventato dalla vetrina e riprese la via del ritorno.
Gabriel era ancora sveglio.
-Va un po’ meglio?- gli chiese
Lui scosse la testa mentre sentì di nuovo la collera salirgli alla gola -No. Mi sembra che vada sempre peggio-
-Mettiti a letto allora e dormici su. E’ la cosa migliore da fare ora-
-Certo. Parleremo domani, ok? Mi dispiace-
-Figurati. Non importa. Buonanotte-
Spense la luce lasciando acceso soltanto il lume, poi si rigirò nel letto e si addormentò.
Edward restò a fissarlo per qualche istante ancora incredulo e scioccato da quella somiglianza, poi si spogliò e si mise a letto.
Fu una notte insonne e tormentata da migliaia di voci e ricordi che pian piano riemergevano nella sua mente provocandogli un dolore indescrivibile.
Avrebbe voluto piangere ancora, e magari urlare, sbattere la testa da qualche parte, ma era una persona sostanzialemnte forte e razionale, così finì per soffocare tutto in fondo all’anima, da qualche parte, e quando si fece mattina, la brutta sensazione di essere fuori dal suo corpo, si era trasformata nella convinzione di essere un’altra persona, completamente diversa da quello che era stato fin ora, annullata, azzerata e messa di nuovo al mondo per crearsi una nuova identità, un nuovo carattere, una nuova vita.
Si alzò, fece una doccia e andò a lavoro mentre Gabriel dormiva ancora. Gli lasciò un messaggio su un fazzoletto di carta “Vado al lavoro, questo è il numero per qualsiasi comunicazione. In ogni caso ci vediamo qui stasera, dopo le diciannove”.
Mentre guidava e la città sfrecciava a destra e sinistra del finestrino, ebbe la strana sensazione di sentirsi cattivo, sentiva una tale rabbia e un tale rancore sconosciuti fino a quel momento. Ma si finse sereno quando si trovò davanti al signor Stevens, tanto che lui fu tentato di pensare che non gli importasse nulla di ciò che era successo.

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