martedì 22 luglio 2008

CAPITOLO 18

Si mise al lavoro subito, dando il meglio di sé e concentrando tutta la sua attenzione su fogli di carta, matite e squadrette, poi pasò il disegno al computer e immerso nello schermo lo ultimò dando sfogo a tutta la sua creatività, divertendosi a cambiare l’ordine dei mobili, a provare i diversi tipi di pavimentazione, il colore dei muri, e infine ci mise dei personaggi che davano un tocco di vita al progetto di quell’appartamento.
Fece un tour virtuale della casa per verificare il tutto. Alle diciassette del pomeriggio aveva già finito. Non era mai stato così veloce.
Così decise di fare una pausa e scese al bar a bere qualcosa, ma tornò subito allo studio con l’intenzione di rinchiudersi di nuovo nel suo lavoro.
-Edward, aspetta- lo chiamò il signor Stevens quando passò nel corridoio.
Lui si fermò.
-Edward, volevo parlarti di un paio di cose, ti prego, sediamoci un attimo-
-Ma certo…- gli rispose entrando e accomodandosi.
-Ho avuto delle commissioni importanti- gli disse prendendo posto sulla sua poltrona dietro la scrivania -volevo farti vedere di che si tratta, è una cosa molto impegnativa e magari volevo chiederti se te la senti oppure…-
Edward si sentì quasi offeso da quelle parole e lo interruppe
-Signor Stevens…Quello che è successo non influirà sul mio lavoro, glielo posso assicurare. Io sono quello di sempre, e farò in modo di rendere anche meglio di prima, almeno per il mese di preavviso che le devo prima di lasciare questo studio-
Stevens impallidì -Stai scherzando?-
Lui scosse la testa -Perché? Non le sembro abbastanza serio?-
L’architetto si alzò e gli voltò le spalle innervosito -Perché stai parlando così? Ho fatto forse qualcosa che non dovevo? Ti ho mai trattato male? A me non sembra, io ho sempre avuto molta stima di te…-
-Signor Stevens!- lo interruppe di nuovo lui -La prego, mi ascolti. Non è colpa sua, anzi, forse questo lavoro è l’unica cosa che mi trattiene ancora qui. Ho intenzione di andarmene, di cambiare città. Restare qui mi farebbe solo male. Mi creda, mi dispiace tantissimo, ma cerchi di capirmi. Le giuro che in questo mese mi impegnerò all’inverosimile per portare a termine i lavori in sospeso e quelli nuovi che vorrà affidarmi-
Lui non rispose, ma era evidente che era stato un duro colpo, e che in qualche modo fosse profondamente incollerito.
-La prego, cerchi di capirmi- gli dise Edward seriamente dispiaciuto
-Si, si, ok…E tu cerca di capire me, non me l’aspettavo questa notizia, avevo grandi progetti in mente, ma avevo bisogno del mio braccio destro per realizzarli. Comunque è giusto che tu faccia le tue scelte, fai quello che senti di fare e non pensare a me. Sappi però che se ci ripensi, ora, tra un mese, tra un anno, o tra dieci anni, quella porta per te è sempre aperta-
Edward tirò un sospiro di sollievo e gli sorrise -Grazie, grazie davvero-
Prima che tornasse al lavoro, squillò il telefono.
-Pronto? Ah, Albert, sei tu- rispose Stevens -Si, è qui…Edward, vuoi parlarci?-
-No…- rispose d’istinto, ma poi ci ripensò. Voleva affrontarlo.
-Edward! Grazie al cielo stai bene, stavamo tutti in ansia per te!- gli disse suo padre
-Cosa vuoi?- lo freddò lui
-Voglio vederti, ti voglio parlare, solo qualche minuto, ti prego-
-Ah si? Anch’io volevo parlarti, sai? Ho veramente “tante cose”da dirti- gli rispose sarcasticamente, ma Albert cercò di ignorare la cosa.
-Allora ti aspetto qui, quando vuoi-
-Verrò stasera. Devo prendere alcune cose. Ci vediamo tra un paio d’ore-
Albert non credeva alle sue orecchie, era sorpreso dalla sua indifferenza, e ciò lo spaventava. Suo figlio, il figlio che ricordava, non avrebbe risposto al telefono e tantomeno avrebbe accettato di vederlo. Lo preoccupava la frase “Devo venire a prendere alcune cose”, ma l’ansia di vederlo era più forte di ogni cosa.
Era circa un mese che era fuori casa. Stava frequentando una donna, dopo più di vent’anni di solitudine in cui non era mai riuscito a dimenticare sua moglie, ma ora, quella donna, sembrava aver riacceso in lui la voglia di riprovare, gli aveva ricordato che infondo, nonostante i suoi passati cinquant’anni, aveva ancora un certo fascino e mezza vita davanti. Stava bene con lei, anche se era molto più giovane e un po’ di questo di vergognava. Aveva trentacinque anni, bella, intelligente, solare. Unico neo, la lontananza. Così si era preso un po’ di tempo lontano da casa, lasciando a malincuore i suoi figli per passare un po’ di tempo con lei, per riflettere e rendersi conto se davvero quel rapporto aveva basi solide…Ma poi, la telefonata di Michael l’aveva sconvolto, aveva mollato tutto e aveva preso il primo aereo con un incredibile senso di colpa sulle spalle per non essere accanto ai suoi figli in quel momento così delicato.
Finito l’orario di lavoro, Edward andò in albergo.
-Mio pad…”Albert”vuole vedermi- disse a Gabriel
-Ah…Bene. E tu?-
-Voglio vederlo anch’io. Voglio vedere se ha il coraggio di guardarmi negli occhi. E voglio fare la valigia-
Gabriel era confuso e preoccupato per lui. Sapeva bene cosa significava affrontare quella situazione e gli salì un nodo in gola ricordandosi del giorno in cui aveva parlato con suo padre.
-Ti va di venire con me?- gli chiese poi distogliendolo dai suoi ricordi
-Ma si…Certo-
Si infilò il giubbino e lo seguì in macchina.
Quando arrivarono a casa Wilson, gli sembrò che non ci fosse nessuno oltre Albert. In realtà c’erano tutti, ma si erano messi d’accordo di restare chiusi nelle rispettive camere per lasciarli parlare tranquilli.
-Buonasera- gli disse Edward con tono cattivo entrando dalla porta
-Ciao- gli disse Albert senza riuscire a nascondere il suo dolore
-Ti presento Gabriel- lo pugnalò ancora con un sorriso finto
Albert era sconvolto -Ciao Gabriel-
-Buonasera signor Wilson- gli rispose lui educatamente
Albert fece loro strada e li condusse nel suo studio, dove avrebbero potuto parlare tranquillamente.
-Cosa vi faccio portare?- chiese con un atteggiamento troppo formale, ma dovuto alla situazione imbarazzante.
-Fai tu. Di solito cosa si offre agli “ospiti”?- gli rispose Edward
Albert sospirò -ok, ok. Perdonatemi, ma sono abbastanza nervoso-
-E perché mai?- insistette lui velenosamente
-Edward, smettila, per favore. Non mi stai rendendo le cose facili- lo pregò
-Ah, scusa perdonami, non me n’ero accorto. In ogni caso, ti rendo subito le cose più facili. Cominciamo a parlare delle mie origini, da dove provengo, di dov’erano i miei genitori e del mio vero nome e cognome-
Gabriel gli diede un calcio per fargli capire che stava cominciando la conversazione nel modo sbagliato.
Albert si alzò e camminò pensieroso per la stanza, poi senza il coraggio di guardarlo in faccia gli disse -Se è questo che volevi sapere quando hai accettato di parlarmi, allora ti deluderò, Edward. Non ti darò mai quelle informazioni. E il motivo è semplice. Sarebbe come mandarti alla deriva senza una meta, solo, senza una casa, senza nessuno. Quindi non lo farò, per il tuo bene-
Lui sorrise amaramente e incredulo -Se non sbaglio era per il mio bene anche nascondermi il fatto che non ero tuo figlio! Di cosa avevi paura? Credevi che non ti avrei amato lo stesso pur sapendo di non esserlo? Forse ti illudevi che non l’avrei mai saputo, ma come vedi il destino a volte gioca brutti scherzi. Forse ora l’hai capito che sarebbe stato meglio dirmi la verità fin da piccolo, come avete fatto con Elisabeth! Lo sapevate tutti, tutti vi siete presi gioco di me! Anche mio fratello, anche mio cugino…Magari anche la mia ragazza!-
-No, no…Anna non ne sapeva nulla. E neanche Elisabeth. Tantomeno Nicole. Arthur l’ha saputo qualche mese fa, per caso. Michael invece l’ha sempre saputo, e anche tutti gli altri-
Edward scosse la testa e sentì le lacrime salirgli agli occhi. Era sollevato dal fatto che almeno le tre ragazze si salvavano, ma si sentiva comunque al centro di un grande complotto contro di lui.
-In ogni caso…Ti chiedo di aiutarmi. Voglio conoscere le mie origini e le cercherò con o senza la tua collaborazione. Quindi se davvero non vuoi mandarmi a brancolare nel buio, e se davvero vuoi il mio bene, dimostramelo-
Albert scosse la testa deciso -No, non posso. Se vuoi fare sciocchezze, io non posso fermarti, ma non ne sarò io la causa-
Edward si alzò -Ok..Allora a questo punto credo non ci sia più niente da dire. Quindi se non ti dispiace vado a prendere le mie cose, non perdiamo altro tempo-
Albert lo afferrò per un braccio mentre gli occhi gli si riempirono di lacrime -Edward, ti prego! Ti prego, rifletti un attimo…Non è da te agire senza pensare, non è da te prendere decisioni così affrettate! Lo so che ho sbagliato, tutti abbiamo sbagliato. Ma ti chiedo perdono e ti chiedo di non valutare i miei errori, ma quello che invece ho fatto di buono per te-
-E cioè?-
Albert era spiazzato da quella persona che non riconosceva più -Io…Io non posso credere che tu abbia scordato tutto-
-Ti sbagli. Io non ho scordato nulla. Tu mi hai dato tanto, anche troppo forse. Hai fatto tutto quello che forse un vero padre non avrebbe fatto, forse hai fatto molto di più. Ma questo faceva parte del tuo inganno. E ora fa parte di una vita che non mi appartiene più-
Gli voltò le spalle e se ne andò, mentre lui, freddato da quelle parole, non riuscì più a ribattere e a provare a fermarlo.
Si lasciò cadere su una poltrona e si coprì gli occhi con le mani.
-Signor Wilson…- gli disse Gabriel poggiandogli una mano sulla spalla -…mi dispiace, mi dispiace veramente. Ma vedrà che è solo un momento difficile-
Albert lo fissò e cercò di sorridergli, ma non riuscì a nascondere gli occhi rossi.
-L’ultima volta che ti ho visto eri piccolissimo, sai?- gli raccontò con rimpianto
-Lei mi ha visto?- gli chiese sorpreso
-Si. Io e mia moglie avremmo dovuto adottare entrambi. Ma quando venimmo a prendere Edward, tu eri quasi in fin di vita. Ti ho ancora davanti agli occhi, così piccolo, completamente intubato. Tu non sai quanto soffrimmo a saperti appeso ad un filo, mentre portavamo via il tuo fratellino. Noi avremmo voluto dare anche a te una casa, una famiglia. Ma la tua malattia non ce l’ha permesso-
-Beh, poi però ce l’ho fatta, e ho avuto anch’io una bella famiglia, quindi so bene ora come si sente Edward, ci sono passato prima di lui. Il tempo però aiuta. Io ora sono in ottimi rapporti con i miei genitori adottivi. Stia tranquillo, si sistemerà ogni cosa-
Albert sorrise ancora -In ogni caso, mi solleva il fatto che ci sia tu con lui. Oltre che essere identico a lui fisicamente, mi auguro che tu lo sia anche nel cuore. E se è così, allora so che è in buone mani-
-Lei sta parlando come se fosse un addio- lo “rimproverò” Gabriel
-Perché so che è così. Perché so che non mi perdonerà. E so che qui non ci vorrà più tornare. Certe cose un padre le sente, anche se non c’è alcun legame di sangue-
-Il legame che c’è tra lei e Edward va ben oltre i legami di sangue. E lo sa, vero che i gemelli si dice siano telepatici. Quindi forse c’è da fidarsi di più di quello che sento io. E io sento che lui tornerà qui, e tornerete ad essere felici. Deve solo passare un po’ di tempo-
-Lo spero, lo spero veramente. Sicuramente per lui questa cosa è stata uno schianto, ma il dolore che sto sentendo io in questo momento, nessuno potrà mai immaginarlo-
-Ma è proprio questo che vi accomuna. E’ questo dolore che vi terrà uniti. La prego, sia sereno signor Wilson-
Albert cercò ancora di sorridere -Si, sei proprio come lui, in tutto. Mi sembra di sentir parlare Edward-
-Non so confermarglielo, non lo conosco per niente…- gli rispose con rimpianto
-Beh, avrete tempo per conoscertvi, ora no?-
Gabriel scosse la testa amaramente -Purtroppo no, signor Wilson. Il tempo è davvero poco-
-In che senso?Non capisco-
-Niente, niente, non importa. Ora però la lascio in pace-
Albert non lo fermò, voleva stare solo.
Gabriel andò un po’ in giro per il salone curiosando tra i soprammobili, poi si sedette e accese la tv come se fosse a casa sua.

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